I commentatori più accesi parlano di “dichiarazione di guerra” dei grandi editori contro la ricerca, di posizioni “anti-scienza”, di “lobby per gli interessi privati e contro il bene pubblico”, di volontà di ripristinare un “sistema feudale”. Il mondo della ricerca è infatti preoccupato per una proposta di legge depositata al Congresso statunitense nel dicembre scorso: il Research Works Act. Se questa proposta dovesse diventare legge, le agenzie pubbliche che finanziano la ricerca non potrebbero più imporre che i risultati degli esperimenti scientifici vengano pubblicati in modo da essere accessibili a tutti.
Oggi molte istituzioni, come i National Institute of Health (l’equivalente Usa del nostro Istituto nazionale di sanità) hanno regolamenti secondo i quali ogni ricerca effettuata con finanziamenti pubblici deve essere resa accessibile a chiunque, online. Una misura di trasparenza, che permette ai cittadini che hanno pagato con le loro tasse uno studio scientifico di consultarne i risultati grauitamente. Il regolamento NIH dice che “tutti i ricercatori finanziati dagli NIH devono pubblicare una versione del loro manoscritto finale sul sito PubMed Central perché venga reso accessibile pubblicamente non più tardi di 12 mesi dopo la data della pubblicazione”. Non si proibisce di pubblicare su una rivista il cui accesso non sia libero, ma dopo un anno una copia deve essere online, a disposizione di chiunque.
Ma non è sempre stato così: prima che venissero introdotti regolamenti di questo tipo, i risultati delle ricerche erano pubblicati solo da riviste scientifiche di proprietà di editori privati, i cui abbonamenti costano migliaia di dollari, o euro, all’anno, e che non sono quindi accessibili né dai comuni cittadini, né dai ricercatori dei paesi meno ricchi. Inoltre gli editori detengono il copyright delle ricerche. In un importante articolo pubblicato dal Guardian alcuni mesi fa, il giornalista George Monbiot ha affermato che “gli editori scientifici fanno sembrare Murdoch un socialista”. Infatti le principali aziende del settore, come Elsevier, Springer e Wiley-Blackwell, operano in un regime di quasi monopolio e possono chiedere prezzi molto elevati: leggere un articolo pubblicato da una rivista di Elsevier o Springer può costare quasi 40 euro, e gli abbonamenti annuali raggiungono spesso cifre a tre zeri. Un cittadino che ha già pagato con le sue tasse una ricerca, deve pagare ancora (e profumatamente) un’azienda privata per leggerne i risultati. Nel 2010 Elsevier ha avuto margini di profitto del 36%, una cifra impensabile nel mercato editoriale.
Il Research Works Act è stato presentato da un duo bipartisan, il repubblicano Darrell Issa e la democratica Carolyn Maloney ed è supportato a gran voce dalla AAP, l’associazione degli editori americani. Oggi sono proprio loro a fare lobby per tornare al vecchio schema. La stessa Elsevier, usando i classici strumenti delle lobby di Washington, pur essendo basata in Olanda ha fatto donazioni elettorali ai due firmatari del disegno di legge (ben 12 donazioni da parte dell’azienda o di suoi dirigenti sono andati a Maloney). Dall’altra parte, molti ricercatori e gruppi come la Taxpayer Alliance e l’associazione delle biblioteche Usa si battono contro la proposta e per estendere ad altre agenzie i regolamenti che impongono la pubblicazione online.
Nel resto del mondo regolamenti simili si stanno diffondendo: la Gran Bretagna sta adottando norme simili per la diffusione delle conoscenze scientifiche. In Italia non esiste una norma a livello nazionale, e la decisione viene lasciata alle singole istituzioni o università, che stanno in molti casi solo oggi cominciando a predisporre siti web istituzionali per rendere accessibili a chiunque le pubblicazioni. Eppure sin dal 2004 la quasi totalità dei rettori ha sottoscritto la Dichiarazione di Messina, che impegna gli atenei a promuovere la disseminazione gratuita del sapere scientifico.
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