“Il dilemma Ron Paul”, “La minaccia Ron Paul”, “Quanto è pazzo Ron Paul?”. Sono titoli presi a caso dai media americani, che colgono un aspetto importante delle primarie repubblicane. Dopo anni di carriera politica nutrita di posizioni coraggiose ma minoritarie, Ron Paul sta conducendo una campagna elettorale da protagonista. Con ogni probabilità non sarà Paul il prescelto per la nomination del partito, ma la sua influenza, sul lungo periodo, promette di essere particolarmente duratura e significativa.
In questi mesi di campagna, molte posizioni di questo deputato del Texas sono uscite dallo stato di minorità in cui hanno a lungo vissuto, per raggiungere un pubblico ampio e sempre più entusiasta (soprattutto di giovani). La chiusura delle basi militari Usa nel mondo, una politica estera antimilitarista, il ritorno al sistema della convertibilità del dollaro in oro, una decisa revisione del ruolo della Federal Reserve, la legalizzazione delle droghe leggere sono le idee che l’oratoria appassionata di Paul ha fatto entrare nel dibattito politico corrente. Come dimostrano le percentuali sinora raggiunte nelle primarie: il 21 per cento in Iowa, il 23 per cento in New Hampshire.
Si tratta di un consenso che lusinga questo 76enne politico, celebre per la sua attitudine al pensiero indipendente (alla Camera, i colleghi repubblicani lo chiamano “Dottor No” per la tendenza al voto solitario e in contrasto con la maggioranza) ma che appunto costituiscono un “dilemma” e una “minaccia” per la leadership del partito. L’ultimo colpo per i big del Gop è venuto ieri, quando un istituto di ricerca indipendente, il Pew Research Center, ha pubblicato un sondaggio. Nel caso a novembre Ron Paul si presentasse come candidato alla presidenza per un ipotetico “third party”, spiegano i dati, raccoglierebbe il 18 per cento dei voti, contro il 44 per cento di Barack Obama e il 32 per cento di Mitt Romney. Il congressman del Texas trarrebbe gran parte dei consensi da elettori indipendenti, che altrimenti avrebbero votato Romney. “Una discesa in campo di Ron Paul con un “terzo partito” sarebbe per noi devastante”, ha detto Ed Rollins, uno stratega e analista del Gop.
Le cronache di queste ore raccontano però anche del sommovimento creato dalle affermazioni di Paul al dibattito tra i candidati repubblicani di lunedì scorso in South Carolina. Interrogato sulla sua politica estera, il candidato ha spiegato di essere stato contrario all’assassinio di Osama bin Laden, per cui avrebbe preferito la cattura e un processo, e ha aggiunto di desiderare una politica estera diversa, segnata dalla “regola aurea” del “vivi e lascia vivere”. “Continuiamo a bombardare gli altri Paesi, e ci stupiamo che si arrabbino con noi?”, si è chiesto retoricamente Paul, mentre un diluvio di fischi del pubblico di repubblicani segnalava il carattere eretico della proposta (di qui l’ironia della rivista “GQ”, che appunto nel numero in edicola titola “Quanto è pazzo Ron Paul?”).
Il deputato del Texas non si è del resto mai preoccupato dell’opinione della maggioranza. Sono la crisi finanziaria di questi anni, unita alla stanchezza di molti suoi connazionali per due guerre perse, ad aver portato molti ad abbracciare la sua miscela di isolazionismo e liberismo (tra l’altro, Paul ha promesso, nel caso diventasse presidente, di tagliare il budget federale di 3000 miliardi di dollari nel primo anno, oltre ad abolire la “federal incombe tax”, il Medicare e ampi settori della sicurezza sociale). Con questa ricetta poco ortodossa di destra libertaria, Paul è diventato – con il favorito Romney – il candidato più capace di guadagnare consensi su base nazionale e in diversi gruppi socio-culturali: conservatori religiosi, repubblicani moderati, fiscal conservatives, indipendenti.
In South Carolina, nelle primarie di sabato prossimo, Ron Paul non dovrebbe ottenere un risultato particolarmente brillante. “Il nostro obiettivo sono stati Iowa e New Hampshire. E, più avanti, Nevada, Maine, Washington, Colorado”, ha detto James Benton, chairman della campagna di Paul. La strategia punta dunque sugli Stati in cui si svolgono i caucuses (a differenza delle primarie, dove i residenti si limitano a esprimere il voto, i caucuses contemplano riunioni in cui si discutono apertamente le posizioni dei candidati – un sistema che si adatta meglio all’organizzazione di militanti devoti ed entusiasti di Paul. Inoltre, negli Stati dei caucuses, gli spot elettorali costano meno ed è più facile votare per gli indipendenti).
“Il nostro obiettivo è andare avanti, conquistare più delegati possibili e arrivare in testa alla convention di Tampa”, ha detto sempre Benton. In realtà, mentre lo scopo dichiarato resta la nomination repubblicana, il team di Paul sta elaborando una diversa strategia. Non tanto una discesa in campo a novembre come indipendente (una possibilità che, ancora qualche ora fa, in South Carolina, Paul non ha liquidato completamente, spiegando però che si tratta di un’opzione “prematura”), quanto piuttosto la raccolta di un numero ampio di delegati, per arrivare a Tampa e influenzare la piattaforma del partito.
“Il piano è usare tutti i delegati di Paul come merce di scambio per costringere il Partito Repubblicano ad assumere una piattaforma che limiti il governo federale”, ha detto Benton ad ABC News. Due soprattutto le richieste che verrebbero da Paul: una revisione del ruolo della Federal Reserve e la cancellazione delle norme più intrusive (in particolare le intercettazioni) del Patriot Act, la legge antiterrorismo votata dopo l’11 settembre.
In questo modo, Ron Paul verrebbe a giocare un ruolo simile a quello di Jesse Jackson alla Convention democratica del 1980 e di Pat Buchanan in quella repubblicana del 1992: battitori liberi, indipendenti, capaci di controllare un numero di voti sufficiente a influenzare il programma del partito alla vigilia delle elezioni. E’ l’eventualità che i leader del GOP temono di più. Certe idee – una diversa strategia antiterrorismo, una forte insofferenza per le politiche degli istituti finanziari, anche quelli di controllo – troverebbero la sanzione più alta e ufficiale: la piattaforma dei repubblicani, alla vigilia della sfida elettorale con Barack Obama.