Per la rassegna Cinevino, il regista romano presenta La più bella serata della mia vita. Protagonista un Sordi che porta i soldi in Svizzera, viene fermato da quattro magistrati in pensione e messo sotto finto processo: "Un industriale sicuro di sé, volgare, donnaiolo e senza scrupoli. Ci sembrava originale all’epoca e ce lo siamo ritrovati oggi nei più alti luoghi della vita pubblica del paese"
“Credo mi abbiano chiamato perché nel film si bevono molti vini raffinati, anche se è un lato abbastanza marginale del narrato”, dichiara Scola al fattoquotidiano.it. Eppure il regista di capolavori del cinema italiano come C’eravamo tanto amati o Una giornata particolare porta uno dei suoi più bistrattati e dimenticati film del decennio dei settanta in cui il protagonista Sordi, un uomo senza scrupoli che sta andando in Svizzera in auto per depositare dei fondi “neri” o soldi sporchi, viene attratto dalla sinuosa presenta di una motociclista in tuta nera (Janet Agren) che lo conduce in una villa abitata da quattro magistrati in pensione dediti a ricostruire processi storici. In questo caso, tra il serio e il faceto, in una dimensione iperbolica quanto grottesca, l’imputato diventa il Sordi affarista, poi condannato a morte per le sue attività illecite.
Già nel 1972 nella cultura del nostro paese era presente un personaggio disonesto e farabutto di questo tipo?
“Infatti, quando si dice che i film non invecchiano non mi sembra un gran complimento, perché se il cinema deve aiutare a cambiare un po’ le cose, vedendo che dopo quarant’anni ci sono ancora film attuali, vuol dire che certe mentalità rappresentate nell’opera non sono invecchiate. Il mio è sempre stato un cinema satirico che si riferiva all’attualità in cui veniva fatto, ma ci si accorge sempre più che questa attualità è abbastanza eterna. Voglio dire, i difetti continuano a ripetersi, il mio è un personaggio del ’72 a cui sembrano ispirarsi personaggi di trent’anni anni dopo: un industriale sicuro di sé, volgare, donnaiolo, senza scrupoli, soddisfatto di sé della sua simpatia e della sua disinvoltura morale. Ci sembrava originale all’epoca, ma ce lo siamo ritrovati non solo al cinema ma nei più alti luoghi della vita pubblica e politica italiana”.
Il film ha un finale discusso. Il protagonista nel racconto di Durenmatt da cui il film è tratto (La Panne, n.d.r.) si suicidava, nel suo film no, anzi si fa proprio una bella risata di tutta questa procedura inquisitoria: può raccontarci come andò il rapporto con lo scrittore svizzero?
“Tutto il film è ispirato al libro di Durenmatt. Un signore che era molto contrario a concedere i diritti sue opere, perché aveva avuto altre esperienze cinematografiche non positive. Però il nostro script e il film li apprezzò molto, anche se alla fine erano molto distanti dal suo libro. Avevamo radici culturali differenti: lui era un protestante luterano, con il senso del peccato e dell’espiazione, un elemento lontano a quello che volevo fare io. L’imputato là veniva travolto dalle accuse dei magistrati a tal punto che per scrupolo di coscienza arrivava a suicidarsi perché si rendeva conto di essere colpevole delle cose che gli venivano contestate. Il mio personaggio non aveva però questo scatto di coscienza, anzi forse non aveva proprio una coscienza, tanto che ride fino alla fine, anche dopo la sentenza di morte comminata. In fondo sa di essere un personaggio eterno, di appartenere a una classe borghese che non soccombe soltanto perché qualcuno l’accusa, ma è così certo del suo futuro e di quello che fa che l’unica reazione alla condanna è il riso”.
Oltre alla figura centrale, ci sono quattro magistrati/giudici. Narrativamente parlando sembra ancora di rileggere vent’anni di storia italiana…
“La magistratura ha influito sul recente passato italiano ma non abbastanza. Quel tipo di colpevole non è scomparso e le sentenze emesse non hanno cambiato natura di una certa umanità. Anche i magistrati illuminati come quelli del mio film, con argomentazioni da applauso, dovranno subire la fiera invincibilità di questo personaggio”.
Dopo il 1972 con Sordi non lavorò più. Ma che fosse al suo servizio o a quello di Monicelli, o a quello di Risi, la maschera sembrava essersi sovrapposta all’uomo?
“Per Sordi ho sceneggiato una decina di film e gli ho scritto diversi personaggi radiofonici tra cui Mario Pio. La scelta d’incarnare questa figura dell’italiano medio è sempre stata una sua precisa scelta d’attore. I personaggi positivi li scartava a priori. Era talmente convinto che i difetti degli italiani andavano descritti e sviscerati per cui era sempre alla ricerca di personaggi cosiddetti negativi, ma che, artisticamente diventavano archetipi o metafore”.
Lei ha avuto una forte militanza politica nel Pci nel suo passato. In questo momento storico quale indicazione darebbe ad un giovane idealista o politicamente impegnato?
“Non ho la presunzione di indicare dove si va. Restano però certe idee e convinzioni uguali a se stesse perché le esigenze non cambiano, le situazioni sociali, del paese intero, restano quelle. Certi principi di tendenza e desiderio di uguaglianza, di redistribuzione della ricchezza in modo diverso, non possono mutare. Spero che un giorno queste idee vengano superate, ciò vorrà dire che l’Italia avrà fatto un passo avanti. Se quelle utopie rimarranno tali, bisognerà nutrire ancora quelle idee e cercare di fare qualcosa”.
Quando è caduto il governo Berlusconi c’è stata festa nazionale, ma poi è sembrato di essere tornati in una strana soluzione di stallo con il governo Monti, non trova?
“Anche qui va visto soprattutto il lato positivo. C’è stato un cambiamento e i cambiamenti sono sempre dolorosi, comportano sacrifici. Del resto crisi è una parola che in greco vuol dire scelta. Siamo di fronte a momenti di scelta e di grande responsabilità. Ben vengano certi sacrifici se possono portare a qualche corruzione o volgarità in meno”.