Dove vanno a finire i soldi dei riscatti versati ai pirati somali? E’ una delle domande chiave per chi indaga sul fenomeno della pirateria contemporanea. E’ uno degli interrogativi sul tavolo di Scotland Yard, la polizia britannica, che di recente ha creato una unità speciale con il compito specifico di rintracciare i flussi finanziari dei riscatti. Sull’argomento a Roma sta indagando il sostituto procuratore Francesco Scavo che sta cercando di fare luce sui casi di sequestro che hanno coinvolto navi italiane. Il più recente, quello della Enrico Ievoli, abbordata al largo dell’Oman il 27 dicembre scorso, con 18 uomini di equipaggio, di cui sei italiani.

I compensi dei sequestri sono al centro anche delle indagini della Chatham House, un think tank britannico specializzato in questioni internazionali, che giorni fa ha diffuso un rapporto frutto di una originale tecnica di ricerca.

Anja Shortland, autrice del rapporto, ha incrociato i dati provenienti dai mercati locali della zona settentrionale della Somalia, in particolare dal Puntland, la regione più interessata alle attività dei pirati, con le immagini prese dai satelliti. Secondo un recente rapporto dell’Onu, il 50 per cento dei circa 70 milioni di dollari che nel 2009 sono stati versati per liberare navi ed equipaggi, è andato a mediatori internazionali. Il restate invece è stato distribuito tra i pirati stessi (30 per cento circa), le basi d’appoggio sulla terraferma (10 per cento) e “doni” alle comunità locali (un altro dieci per cento).

Le immagini satellitari diurne e notturne mostrano, secondo il rapporto Shortland, un aumento delle emissioni luminose e di Co2 delle città di Bosaso e Garowe, i principali centri del Puntland, dal 2000 ad oggi. Inoltre, l’area urbanizzata di Garowe è sostanzialmente raddoppiata tra il 2002 e il 2009, un segno certo di nuove attività economiche e nuovi fondi che arrivano nella regione. “E’ molto improbabile che le elites politiche del Puntland assumano misure decise contro la pirateria”, scrive Shortland. Anche perché il business è in crescita, nonostante le difficoltà: secondo il Parlamento britannico, nel 2011 sono stati pagati riscatti per un totale di 135 milioni di dollari.

Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, invece, le comunità costiere “hanno guadagnato poco dall’ospitare i pirati e potrebbero essere aperte a soluzioni negoziali che offrano alternative più attraenti”. Non è una considerazione da poco, questa. L’Unione europea, infatti, entro fine gennaio attende dai comandanti della missione navale Atalanta una prima valutazione “tecnica” sulla possibilità di estendere all’entroterra le operazioni anti-pirateria, possibilità che sarà discussa probabilmente nel grande forum internazionale sulla lotta alla pirateria che il governo di Londra sta organizzando per il mese di febbraio.

Tutti, dagli armatori agli ammiragli, dai ministri degli Esteri fino agli operatori del settore sono convinti che la soluzione alla pirateria sia sulla terraferma. Solo che, come sempre, le ricette divergono: da un lato, governi e marine militari sembrano sempre più propendere verso l’idea di blitz e incursioni “limitate” contro le tortughe sparpagliate sulla costa somala. Dall’altro gli esperti di relazioni internazionali e di cooperazione fanno notare che difficilmente aumentare la soglia di violenza porterebbe benefici ai traffici mercantili del Golfo di Aden, per non dire alle comunità locali somale, che rischiano di trovarsi di nuovo in mezzo ai combattimenti. L’alternativa, dunque, potrebbe essere proprio quella di individuare quali siano le zone che “subiscono” la pirateria (o quantomeno non ne ricavano i benefici che si potrebbe supporre) e iniziare da lì la ricostruzione di un tessuto economico e sociale che offra alternative alla rapina per mare. Quanto costerebbe? Sicuramente meno di quanto non costi tenere davanti alle coste del Corno d’Africa una trentina di navi da guerra divise in almeno tre forze navali. Per pattugliare quelle rotte, nel 2010 sono stati spesi più di due miliardi di dollari, mentre gli aiuti internazionali alla Somalia – compresi quelli per l’emergenza alimentare – ammontavano nel 2011 a meno di un miliardo e mezzo.

In attesa del lavoro degli investigatori per rintracciare il 50 per cento dei fondi dei sequestri che non diventano nuove case a Garowe o nuovi gruppi elettrogeni a Bosaso, è una informazione molto utile, perfino per i comandi militari, sapere una volta tanto dove non colpire.

di Enzo Mangini

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