Ci siamo abituati al fatto che una giustizia, penale e civile, che non funziona è parte organica del nostro bel paese. Una maledizione, che insieme alle condizioni disastrate del sistema idrogeologico e alle furbizie della politica accompagnerà la nostra esistenza e quella dei nostri figli e nipoti.
Serenamente, se intentiamo una causa civile, entriamo in un mondo parallelo dove il concetto di tempo assume una straordinaria dimensione di immobilità. Dove un raffreddore del giudice o uno sciopero degli avvocati ti catapulta, insieme alla causa, in un futuro lontano. La vita scorre, i tuoi cari muoiono, tu divorzi e i figli si fanno grandi e l’unica certezza rimane quella del tuo fascicolo che, oppresso dalla polvere, vive sbiadito in un archivio del tribunale. Sei risvegliato dalle facce dei magistrati o degli avvocati o dei politici che, in televisione, ti ricordano come da anni giacciono proposte, controproposte, revisioni e progetti di riforma tesi ad assicurare una giustizia più simile alla velocità della gazzella che non a quella del bradipo.
Ma poi, quando varchi le porte di un tribunale ti allinei nuovamente alla velocità dell’animale più lento della terra. E la ordinaria (in)giustizia prospera assumendo una dimensione autonoma separata dal resto del mondo. Le responsabilità ricadono, equamente suddivise, nel nulla perché tutti coloro, che se ne dovrebbero occupare, hanno imparato nel tempo ad essere abbastanza lesti da schivarle. Categorie che prosperano sulla lentezza. Vere caste ( magistratura, avvocatura e politica ) che non desiderano cambiare nulla.
Ci vorrebbe Franco Basaglia nel mondo della giustizia. Un Basaglia che sappia gridare a tutti questi operatori della nostra vita giudiziaria che devono scendere dal piedistallo del loro status per immergersi nella vita reale. E invece prosperano i baronati, in questo mondo come in quello della medicina. Ma di visionari alla Franco Basaglia, tra magistrati, politici e avvocati non se ne vedono.