La cosa più rabbrividente nella tragedia della Concordia non è il naufragio col suo strascico di morti e di dispersi, ma la telefonata fra il capitano di Fregata Gregorio De Falco, a capo della Capitaneria di Livorno, e il comandante Francesco Schettino. Perché non c’è spettacolo più osceno, pornografico di un uomo, di qualsiasi uomo, ma in particolare di un comandante di nave, ‘secondo solo a Dio’ quando è in plancia, che, per paura, di colpo si smaschera, si cala le braghe e si umilia e si fa umiliare in quel modo, davanti al mondo intero.
Gli errori, l’imprudenza, la leggerezza del comandante Schettino appaiono evidenti. Ma l’errore, cioè una valutazione sbagliata, proprio perché tale va al di là della volontà di chi lo compie, anche se poi dovrà pagarne giustamente tutte le conseguenze legali. Ma non è necessariamente un’onta. Ci sono stati assi del volante che, per un eccesso di spericolatezza, hanno ucciso degli spettatori (penso, per esempio, a una Mille Miglia di tanti anni fa), ma non per questo sul loro nome è rimasta l’ombra della vergogna. La colpa veramente imperdonabile del comandante Schettino è un’altra: aver abbandonato la nave prima che tutti i passeggeri – quelli almeno per i quali si poteva fare ancora qualcosa – fossero stati tratti in salvo. Perché questa è una decisione che è dipesa solo dalla sua volontà, non da un’errata valutazione, sempre possibile. Prima della legge un codice d’onore antichissimo, ancestrale, e l’intera storia della navigazione dicono che il comandante deve essere l’ultimo ad abbandonare la nave che affonda e, se del caso, inabissarsi con essa (e, a volte, anche se non è il caso, come fece il comandante del Titanic, Edward Smith, che rifiutò di essere tratto in salvo, e che ne seguì l’inevitabile sorte – ma erano altri tempi, altra gente, altre tempre, altra classe: dopo il mayday, e non è leggenda, non è film, è storia, l’orchestra continuò a suonare e i passeggeri a ballare).
Con quell’abbandono Francesco Schettino non ha perso solo gli alamari del comandante, ha perso la faccia, ha perso la dignità, ha perso l’onore. E l’onta indelebile di quell’abbandono lo seguirà per tutta la vita. Non potrà più guardare in faccia nessuno senza avvertirne il disprezzo. Ma non mi ha convinto nemmeno l’atteggiamento del capitano De Falco. De Falco, standosene seduto in capitaneria (giustamente il comandante Amato, che ebbe Schettino come ottimo primo ufficiale, ha ricordato un vecchio detto: “I marittimi si dividono in due categorie: quelli che vanno per mare e rischiano e quelli che stanno a terra e giudicano”), maramaldeggia sadicamente su un uomo finito. De Falco, si scrive, non vuole passare da eroe. Non si fa vedere in televisione, non parla. In compenso fa parlare la moglie che dichiara all’inviato del Corriere della Sera: “Sa qual è la cosa più preoccupante? Che in Italia chi fa semplicemente il proprio dovere, come ha fatto mio marito, diventa un eroe”. Ma questa è l’apoteosi dell’autoesaltazione, espressa in termini retorici, dell’eroismo.
Perché non esiste solo una retorica della grandezza, esiste anche una retorica della modestia o piuttosto della falsa modestia. E la retorica, di cui i media italiani hanno fatto in questi giorni uso a piene mani (soprattutto la retorica dei ‘buoni sentimenti’), come avvertiva Alberto Savinio in un preveggente e prezioso libretto, “Sorte dell’Europa” del 1943, “è un male endemico nel nostro paese, è il male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura e una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure”.
Il Fatto Quotidiano, 21 Gennaio 2012