I due stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana avevano forse creduto di averla fatta franca il primo aprile dell’anno scorso, quando il giudice per l’udienza preliminare di Milano, Simone Luerti, li aveva prosciolti dalle pesanti accuse di truffa ai danni dello Stato e dichiarazione infedele dei redditi per circa un miliardo di euro. Poi però l’Agenzia delle Entrate ha messo a segno un secco uno-due che costerà carissimo ai due ben vestiti evasori. Prima la Corte di Cassazione ha annullato il proscioglimento di Luerti, rimandando il fascicolo a un altro Gup che dovrà ora valutare nuovamente la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal pubblico ministero Laura Pedio. Poi è arrivata la severa pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Milano: il tribunale fiscale ha dato ragione agli ispettori, ha respinto il ricorso degli stilisti e li ha condannati a pagare 343 milioni di euro.
In attesa dei successivi gradi del giudizio amministrativo, la legge obbliga al pagamento immediato di due terzi della sanzione: Dolce & Gabbana riceveranno così nei prossimi giorni una cartella Equitalia da 229 milioni, e dovranno pagarla personalmente, perché l’accusa di evasione ha colpito proprio loro e non le società di cui sono proprietari. L’operazione contestata dal fisco è da manuale, al punto che la sua linearità non appare all’altezza della rinomata creatività dei due protagonisti. Fino al 2004 Dolce e Gabbana erano personalmente proprietari dei marchi del gruppo, che cedevano in uso alle società operative a fronte del pagamento di royalties variabili, comprese tra lo 0,5 per cento del fatturato per i profumi e il 2,5 per cento per abbigliamento e accessori. Queste royalties erano tassate come reddito personale dei due cittadini italiani, quindi assoggettate all’aliquota del 45 per cento.
Ma proprio nel 2004 i due hanno pensato bene di vendere i marchi a una società lussemburghese appositamente costituita, la Gado Sarl, che a sua volta ha stipulato il contratto per la licenzia d’uso dei marchi con l’italiana Dolce&Gabbana srl. L’accordo, valido per dodici anni, prevedeva il pagamento di royalties pari a una percentuale del fatturato tra il 3 e l’8 per cento, ma con un minimo garantito di 54 milioni all’anno, destinato a crescere ogni anno non meno del 7 per cento. Il vantaggio fiscale è evidente. In primo luogo la tassazione lussemburghese per quelle royalties era del 4 per cento, anziché del 45 per cento pagato in Italia. In secondo luogo il livello delle royalties sale di colpo rispetto al livello pagato in precedenza ai due stilisti come persone fisiche, il che equivale a ottimizzare il trasferimento di reddito in Lussemburgo, visto che l’innalzamento delle royalties corrisponde con tutte evidenza a una riduzione degli utili (tassati) della Dolce&Gabbana srl.
Gli occhi dell’Agenzia delle Entrate hanno messo a fuoco il prezzo di vendita dei marchi, fissato in 360 milioni di euro, e giudicato dagli ispettori del fisco troppo basso. A prima vista, pagare 360 milioni una cosa che ti rende almeno 54 milioni il primo anno (il 15 per cento del capitale), cifra crescente del 7 per cento annuo per i successivi 11 anni, sembra un ottimo affare. I due stilisti avevano fatto le cose in piena regola, con tanto di perizia della prestigiosa Price WaterHouse Coopers, che aveva valutato i marchi 355 milioni. Il difensore di Dolce e Gabbana, l’avvocato Lorenzo Piccardi dello studio ex Tremonti, ha negato che ci si trovasse di fronte al cosiddetto “abuso di diritto”, e ha difeso la correttezza dell’operato degli stilisti.
Una linea accolta dal Gup Luerti, che nel prosciogliere i due noti personaggi ha sostenuto che il reato non c’era perché tutto era stato fatto “alla luce del sole”. Ragionamento annullato dalla Cassazione e dalla stessa Commissione tributaria, che ha invece accolto la tesi dell’Agenzia delle Entrate: c’è abuso di diritto in quanto un’operazione in sé perfettamente trasparente e formalmente corretta è evidentemente finalizzata alla sola evasione delle tasse. I marchi infatti rimangono di proprietà delle stesse persone, e non si vede altra ragione del risparmio fiscale nella loro cosiddetta “esterovestizione”. Quindi, dicono i giudici del “tribunale fiscale”, “sono stati aggirati i principi costituzionali della capacità contributiva e dell’imposizione fiscale”, e “le operazioni sono state poste in essere senza che i contribuenti avessero addotto ragioni economicamente valide rispetto al semplice risparmio d’imposta”.
E la sentenza cita un pronunciamento della Cassazione secondo cui “il contribuente non può trarre vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione”. Segue il conto: il valore reale dei marchi non era, secondo la Commissione tributaria, di 360 milioni ma, secondo un semplice calcolo sulla sicurezza del reddito atteso, di 730 milioni. Da qui la sanzione: 343 milioni da pagare al fisco.
da Il Fatto Quotidiano del 21 gennaio 2012