L’esistenza umana, scriveva Jeremy Bentham, si svolge sotto l’impero di due padroni, il piacere e il dolore. Bentham, naturalmente, scriveva nel Settecento, ai tempi del marchese de Sade; avesse scritto oggi, l’avrebbe messa diversamente: la vita umana, avrebbe detto, è retta da tre signori, il piacere, il dolore e la password. In diverse forme – username, codici numerici, pin, puk… – questo abracadabra tecnologico controlla ormai gran parte della nostra esistenza; senza, non potremmo più comunicare gli uni con gli altri, farci riconoscere, prelevare denaro, prenotare un treno o una pizza, in alcuni casi neppure tornare a casa: o non li avete già visti, nei portoni di qualche zona esclusiva o all’estero, i citofoni a bottoni, che subordinano anche il rientro a quest’ennesimo terno al lotto?

Tutti gli anni, facendo il cambio dell’agendina da tasca, trascrivo maniacalmente tutte le mie password, al solo scopo di convincermi di avere ancora io il controllo: ma ormai è un compito disperato. Una volta si poteva metterle in qualche angolo delle Note personali, magari al posto delle assicurazioni o delle persone da avvertire in caso d’incidente, che tanto più di portare sfiga non fanno. Oggi no; le mie password principali, gli anni scorsi, si sono progressivamente estese nelle due pagine bianche iniziali dell’agendina, e quest’anno hanno già trionfalmente invaso il calendario di gennaio. Riesco a malapena a tenerle a bada, prima che superino la data di oggi: sarà un fatto simbolico, ma quando la supereranno avrò la definitiva conferma che le password si stanno mangiando la mia vita.

Tenerle a memoria, come consigliano le istruzioni del bancomat, è divenuto materialmente impossibile: una sfida persa in partenza all’Alzheimer globale che ci travolge. Fidarsi del computer, della sua infinita capacità di memorizzare, è una dimostrazione di ottimismo metafisico: viene sempre il momento in cui ti pianta in asso. Uniformare tutte le password, elaborare un’unica password globale, non è possibile, troppo diversi i circuiti e le regole di formazione, ma se anche si potesse sarebbe terribilmente rischioso; chi possedesse questa parola magica, infatti, non controllerebbe solo la nostra vita ma sarebbe, molto più semplicemente, ciò che noi siamo: potrebbe prendere il nostro posto e sostituirci senza perdite in tutto, anche negli affetti familiari.

Pure scriversi le password, come mi ostino a fare, affidarle a un pezzo di carta che può sempre perdersi o deteriorarsi, sta diventando ugualmente disperato; non passa giorno che qualche servizio clienti, con aria di rampogna, o qualche gelido avviso in rete, non mi dica che non ricordo una password importante, e non mi costringa a digitare un’altra password per tentare di recuperarla. Ecco, ci mancava solo questa storia dei ragazzi che, invece di fare sesso o di tatuarsi in fronte il nome del partner, come sarebbe più sano, scambiano con lui la password della posta elettronica, o di facebook, o di twitter, a mo’ di supremo gesto d’amore, per chiudere il cerchio: la password è diventata la cifra dei nostri sentimenti, il segreto alla nostra intimità, la chiave della nostra identità.

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