La surreale vicenda del Museo d’Arte contemporanea palermitano di Palazzo Riso appare per molti versi emblematica.
Dopo soli tre anni di vita, il direttore Sergio Alessandro annuncia che il museo sta per chiudere perché la Regione Sicilia avrebbe arbitrariamente bloccato dodici milioni di euro di finanziamenti provenienti dall’Unione Europea. A stretto giro, l’assessore ai Beni culturali e all’Identità Siciliana (sì, avete letto bene) della Regione, Sebastiano Missineo, e lo stesso governatore Lombardo hanno smentito tutto, accusando di irresponsabilità il direttore del museo.
A differenza del Madre di Napoli e di molti dei pretenziosi ‘acronimi’ spuntati come funghi in tutta Italia, Palazzo Riso non ha interpretato l’ambigua missione di un museo per l’arte d’oggi come un’abdicazione sistematica al grande mercato internazionale, ma ha invece scelto di condurre una ricerca aperta e condivisa sul possibile ruolo civile dell’arte contemporanea: il che spiega perché la sua paventata chiusura abbia suscitato una così vasta e determinata contrarietà.
Ma il punto davvero critico è il rapporto tra il potere pubblico e l’arte di oggi. Lo Stato, e specialmente gli enti locali, si sono dati ad un mecenatismo da far invidia a quello di Cosimo il Vecchio o di Urbano VIII, aprendo diecine di centri o musei d’arte contemporanea. Naturalmente l’assenza di un qualunque metro di qualità e l’ovvia incompetenza degli amministratori ha tradotto tutto questo in un gigantesco meccanismo clientelare che ha drenato notevoli quantità di denaro pubblico verso un mercato che non ne avrebbe alcun bisogno. Oltre ai danni economici, questo fenomeno produce effetti tragicomici sul piano culturale. Non c’è cittadina tanto provinciale e diseredata da non voler dare il suo contributo al patinato mondo dell’arte comtemporanea, e vale oggi per l’Italia ciò che Marc Fumaroli denunciava nella Francia dei primi anni Novanta, notando che i muri della Provenza erano coperti di manifesti con frasi tipo: «Le Conseil Régional dynamise les arts plastiques».
A causa del disastro della politica culturale italiana, poi, i fondi pubblici destinati al contemporaneo vengono fatalmente sottratti alla conservazione dell’arte antica. Che la Regione Campania (la regione che ospita Pompei e il pericolante centro storico di Napoli) abbia gettato milioni di euro nella scatola vuota del Madre è forse il simbolo più eloquente di questo perverso cortocircuito.
Ma l’azione dell’arte di oggi sull’arte del passato va ben oltre questa deprimente competizione economica. L’abitudine ad un’arte che non è più figurativa e non ha più una dimensione intellettuale (perché certo nulla ha di intellettuale l’enigmistica concettuale dominante) ha lentamente creato un modello di ricezione che non ci permette più di guardare a Giotto o a Caravaggio per quello che sono.
L’arte è associata all’evasione e al disimpegno, ed è passata l’idea che non c’è niente da capire: il pubblico sa che non gli è richiesta nessuna preparazione, nessuna partecipazione profonda, nessun giudizio critico. E sa che non deve chiedersi se le cose che vede abbiano un senso o meno, né domandarsi perché gli piacciano (se gli piacciono).
E questo è un enorme problema, perché senza uno sforzo intellettuale Giotto o Caravaggio restano muti: li forziamo continuamente in grandi mostre-evento, ma non riusciamo a comprenderli nel loro contesto storico e ambientale. Non permettiamo che entrino nella nostra vita interiore, non capiamo a cosa servono, e non riusciamo nemmeno a conservarli decentemente.
L’arte figurativa è sempre stata uno straordinario ponte tra passato e futuro: oggi l’arte promossa dalle grande scuderie commerciali internazionali e dai circuiti mediatici è un’arte senza passato e senza futuro, che contribuisce al nostro sterile ripiegamento sul presente, assecondando le peggiori inclinazioni di questo tempo. Centri come quello di Palazzo Riso dimostrano che un’altra strada è possibile: non facciamoli tacere.