In Sicilia ci sono ceti popolari alla fame, e motivi sacrosanti di rabbia e di ribellione. Ma l’esasperazione popolare non sempre diventa rivolta democratica, può anche precipitare in vandea reazionaria. Che nella Sicilia del dopoguerra ha sempre trovato a disposizione gli emblemi accattivanti ma pericolosamente retrivi dell’indipendentismo, brodo di coltura per l’egemonia mafiosa. I segnali che il movimento dei forconi stia prendendo questa piega, malgrado la buonafede di tanti cittadini che spontaneamente si sentono coinvolti, si stanno moltiplicando e non possono essere più ignorati. Perché una Sicilia che finisse nelle mani dei Ciccio Franco e dei “boia chi molla” stile Reggio Calabria 1970 sarebbe una tragedia incalcolabile, non solo per tutti i siciliani onesti, ma per l’intero paese.
L’eventualità non è affatto remota. E molto grande il rischio dell’equivoco. Troppe sono le analogie già evidenti nei “forconi” siciliani. La presenza sistematica dei nazisti di “Forza nuova”, tanto più tossica perché spacciata per “apolitica”. L’attacco rivolto non già ai simboli del potere regionale, dove alligna la quintessenza della malapolitica, della corruzione, del clientelismo, dell’intreccio mafioso, ma ai negozi e al sistema dei trasporti, dunque alla vita quotidiana dei siciliani, ormai sequestrati e senza rifornimenti. Mentre i politicanti e i loro padrini restano indisturbati, quasi che non siano loro la “banda” che ha dissipato le risorse ingentissime da Statuto autonomo nel più sfrenato latrocinio, lasciando alla fame quanti privi di santi (politico-mafiosi) in paradiso.
Ciò che sta avvenendo e precipitando in Sicilia dovrebbe essere di monito anche alle buone intenzioni espresse dal governo Napolitano-Monti-Passera, e spingerlo a prendere urgenti provvedimenti che colpiscano davvero i profittatori di regime del passato (si spera) ventennio, dai grandi evasori alle cricche politicanti agli imprenditori corrotti, perché solo così i sacrifici del “Terzo Stato” potranno restare nel tollerabile. Mentre è auspicabile che sindacati non corporativi (in primo luogo la Cgil e massimamente la Fiom) sappiano assumersi il compito nazionale di unificare in “rivolta civile” tutte le proteste, prima che degenerino.
Il Fatto Quotidiano, 21 Gennaio 2012