“Un po’ di dramma è una buona cosa”, dice Reince Preibus, chairman del Partito repubblicano, e non si sa quanto il ‘dramma’ sia ben accetto o subìto. Alla vigilia delle primarie repubblicane in South Carolina, Preibus e l’intera leadership repubblicana devono del resto fare buon viso a cattiva sorte. Erano arrivati al Sud certi di aver trovato il loro candidato – Mitt Romney – e si ritrovano nel giro di poche ore senza un candidato certo e con una corsa elettorale che promette di essere lunga e faticosa.
Oggi si vota in South Carolina. Tre dei quattro sondaggi pubblicati nelle ultime ore mostrano Newt Gingrich leggermente in vantaggio rispetto a Romney (il Clemson Palmetto Poll dà Gingrich al 32 per cento, Romney al 26 per cento, Ron Paul all’11 per cento, Rick Santorum al 9 per cento). L’ex-speaker della Camera, che dopo le primarie del New Hampshire pareva a corto di idee e chance di vittoria, è riuscito nel giro di pochi giorni a ribaltare le previsioni. E’ successo quasi tutto giovedì, una giornata che resterà nella storia di queste primarie, Gingrich ha incassato l’endorsement del candidato uscente Rick Perry; ha assistito alla riassegnazione, a Santorum, del primo posto in Iowa (sottratto così al rivale Romney); ha messo a segno una scintillante apparizione televisiva nel dibattito tra gli sfidanti a Charleston.
Soprattutto lo show davanti alle telecamere di CNN, giovedì sera, è stato ‘puro Gingrich’, e cioè un concentrato di intelligenza, faccia tosta, istinto politico e guasconeria. Gingrich si è guadagnato ben due ‘standing ovation’ per la gestione della domanda sull’ex moglie Marianne, che in un’intervista a ABC News aveva parlato della predilezione di Newt per un ‘matrimonio aperto’. “Sono stupefatto che voi di CNN iniziate un dibattito presidenziale con spazzatura come questa”, ha scandito sdegnato Gingrich, puntando il dito contro il moderatore John King. Ciò gli ha permesso di mettere a segno due punti importanti: non ha risposto alla domanda; ha sollevato l’indignazione del popolo repubblicano contro i media (uno dei grandi classici del pensiero e della polemica dei conservatori d’America).
L’altro capolavoro politico Gingrich lo ha realizzato dietro le telecamere. Con il dibattito in corso, il suo team ha passato ai giornalisti la copia della dichiarazione dei redditi 2010 del candidato: 3 milioni di dollari di entrate, e il 32 per cento di tasse pagate allo Stato. In questo modo Gingrich ha sottolineato ancora una volta le reticenze di Romney (che non ha reso pubblica la sua dichiarazione dei redditi e ha ammesso di aver pagato solo il 15 per cento di imposte). Soprattutto, ha fatto scivolare in secondo piano un dato non fatto per compiacere il popolo contadino e operaio del South Carolina: e cioè che 3 milioni di dollari sono tanti e fanno di Gingrich un ‘privilegiato’, proprio come ‘il figlio del privilegio’ Romney.
Mentre, ora dopo ora, le fortune di Newt crescevano, quelle di Mitt subivano un declino vorticoso. L’ex-governatore del Massachusetts era arrivato al Sud con l’aura dell’invincibile e del predestinato. Due vittorie in Iowa e in New Hampshire, la leadership repubblicana compatta dietro di lui, il senso che la partita si stesse chiudendo sul suo nome. Poi, l’edificio ha cominciato a franare. E’ stato ancora una volta il tema della ricchezza personale, il vero tallone d’Achille di Romney, a far esplodere le polemiche . La settimana scorsa il candidato era sopravvissuto, a stento, ai dubbi sul suo passato a Bain Capital, la società di private equity attraverso cui Romney dice di aver creato 100 mila posti di lavoro (informazione mai provata). Questa settimana è stato il tema delle tasse a sollecitare tante domande e poche risposte. Romney continua a non rendere visibili i suoi tax returns. Alla domanda, giovedì sera: “Farà come suo padre George, che da candidato alla presidenza nel 1968 rese pubbliche 12 consecutive dichiarazioni dei redditi?”, Romney ha risposto, poco convinto: “Forse”.
Altre polemiche su milioni di dollari investiti in fondi alle Isole Cayman, e l’annuncio del Partito repubblicano che i caucuses dell’Iowa erano stati vinti da Santorum, per 34 voti, hanno portato giù, sempre più giù, Romney, che ora lotta per mantenere un vantaggio che sino a qualche giorno fa sembrava certo. Lui stesso, nel corso di un comizio triste, poco popolato, bagnato da una pioggia incessante tra i coltivatori di cotone e tabacco della contea di Lexington, ha ammesso di aver subito “una piccola sconfitta”. E un suo adviser, Stuart Stevens, ha messo le mani avanti, ricordando che Mitt era arrivato quarto, in South Carolina, quattro anni fa, e che “abbiamo sempre pensato che qui sarebbe stato molto difficile. La campagna andrà avanti, ben oltre il South Carolina e la Florida (il prossimo appuntamento delle primarie, il 31 gennaio, ndr)”.
Oltre a rappresentare un test sulla forza reale del ‘predestinato’ Romney, il voto di oggi dirà una parola definitiva sulle ambizioni di Santorum (che in uno Stato cristiano e conservatore come il South Carolina deve ottenere un risultato ‘importante’, pena la probabile uscita di scena) e porterà a un probabile nuovo, ottimo piazzamento per Ron Paul (la cui strategia guarda a Maine e Nevada, ma soprattutto a raccogliere un numero di delegati sufficiente per ‘orientare’ la piattaforma elettorale repubblicana alla convention di Tampa). In attesa dell’esito delle urne (i seggi sono aperti dalle 7 alle 19, i primi risultati dovrebbero arrivare intorno alle 21, le tre del mattino ora italiana) molti osservatori notano il curioso paradosso di queste primarie in South Carolina: uno Stato con una larga presenza di cristiani evangelici, che si trovano oggi a scegliere tra il ‘mormone’ Romney, e ‘l’adultero’ Gingrich.