“Dal viaggio della memoria non si esce indenni”. Comincio con questa frase il testo che sto dedicando alla Shoah (il 27 gennaio è il Giorno della Memoria) perché l’ho ascoltata con emozione in un film nuovo e diverso che proprio in questi giorni si può (si deve) vedere in Italia. Cito altre frasi: “Se una storia non viene raccontata diventa qualcos’altro. E così ho scritto per te nella speranza che questa storia accompagni anche te. Siamo tutti figli della nostra storia”.
Il film è La chiave di Sara, l’autore è il poco noto Gilles Paquet-Brenner, che qui si rivela un grande regista, la storia si svolge in Francia nel 1942. E oggi, mentre guardiamo il film, la domanda non è “che cosa avresti fatto allora” (che, certo, ricorre continuamente) ma è: “che cosa farai adesso”, dopo avere saputo che tutto ciò è accaduto davvero, e come è accaduto.
L’originalità della domanda fa del film un esperimento unico. Per arrivare a quell’espediente e ricollegare i tranquilli cittadini di oggi a un giorno dimenticato, anzi insignificante per quasi tutti (Parigi, 11 luglio 1942) basta la banale vicenda di un appartamento da ristrutturare. Ci pensa con bravura il marito architetto mentre la moglie, giornalista, ha da fare con la frase di un discorso dell’allora presidente Chirac. Deve ricostruire per il suo settimanale d’attualità il riferimento di Chirac al Vél d’Hiv e ai fatti tremendi che in quel Velodromo si sono all’improvviso verificati, portando arresti di massa di intere famiglie, detenzione, violenza, deportazione, una tragedia priva di senso che ha sconvolto, travolto e in gran parte ucciso, attraverso la deportazione, diecimila persone, un terzo bambini.
La giornalista del film nota alcune cose: nessuno dei suoi giovani e abili colleghi sa niente o ha mai sentito parlare del Vél d’Hiv (come i parigini hanno a lungo chiamato per brevità il Velodromo d’inverno della città, fino alla dismissione). Non esiste una sola fotografia di diecimila persone ammassate per giorni, con i loro vecchi e i loro bambini, in uno stadio senza acqua e senza servizi igienici. Non esistono targhe o monumenti visibili (bisogna sapere e cercare). E una volta informati, i giornalisti nella redazione del settimanale di attualità, condannano la “cattiveria dei nazisti”. Tocca alla collega più anziana informarli: non i nazisti, i francesi. “Noi, siamo stati noi”. È un delitto francese, e per questo Chirac chiedeva scusa. Chiedeva scusa a chi?
Intanto il marito architetto sta ristrutturando a regole d’arte l’appartamento, che è sempre appartenuto ai suoi genitori e ai suoi nonni. Sempre? Bastano due generazioni per risalire a chi sapeva, e non ha mai pronunciato il nome ebreo di chi era stato strappato da quell’appartamento, rendendolo libero all’improvviso, in tempo di guerra, in piena Parigi. È il segreto del film La chiave di Sara che ha questo di grande: il gioco terribile del “tu che cosa avresti fatto?” si gioca adesso, e vi partecipa una famiglia parigina in cui nessuno è fascista e nessuno è antisemita, eppure deve decidere: si abita in quella casa espropriata con l’espediente della deportazione al Vél d’Hiv e poi ad Auschwitz, da cui, forse, nessuno di quella famiglia è tornato vivo?
Non vi dirò di più del film (c’è di più e per questo va visto). Ma i lettori si saranno accorti che, per la prima volta dopo dieci anni e tante discussioni (alcune nobili, alcune colte, alcune difficili da condividere) mi sono imbattuto in un regista e uno sceneggiatore che hanno proposto la domanda: perché il Giorno della Memoria?
E hanno dato una risposta: perché il giorno della memoria è adesso. Per spiegare il mio sollievo devo riferirmi al saggio appena pubblicato da Valentina Pisanty, Abusi di Memoria, negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pag. 137, euro 16) a cui Il Fatto ha dedicato una pagina nei giorni scorsi.
La Pisanty scrive in apertura del suo saggio: “Da dove derivano tanto il fastidio che taluni provano nei confronti del Giorno della Memoria, quanto la carità pelosa con cui altri lo celebrano? Il difetto, si direbbe, sta nel manico, e cioè nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia. E ciò, si badi bene, non a ridosso degli eventi, quando gli italiani avrebbero potuto attingere ai ricordi vivi di uno sterminio appena perpetrato per interrogarsi sulle proprie responsabilità dirette, ma a distanza di decenni, quando la comunità commemorante cominciava a sentirsi sufficientemente estranea agli eventi in questione da poterli chiudere in una teca da museo. Come ha spiegato Maurice Halbwachs (1950) la memoria collettiva è sempre funzionale agli interessi, alle sensibilità, e ai progetti di chi la gestisce, e i filtri culturali che selezionano gli episodi ritenuti memorabili dipendono dai pensieri dominanti delle società a cui fanno capo”.
Questa lunga e disturbante citazione mi serve per far notare la vistosa incoerenza con quanto si può leggere, appena poche righe prima, nello stesso capitolo (il primo) del libro della Pisanty. Cito: “La Shoah non è, come ci si è a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso frutto di incosciente faciloneria, piuttosto una reale e diffusa intenzione omicida, ma un crimine anche italiano che, per decenni, gli italiani hanno spazzato via a copi di amnistia e di amnesia. Non per niente ci sono voluti quattro anni prima che Furio Colombo riuscisse a far discutere la proposta di legge in Parlamento: evidentemente nessuna delle parti politiche interpellate aveva particolare premura di affrontare la questione”.
Valentina Pisanty è studiosa al di sopra di ogni dubbio quanto alla qualità scientifica e alla integrità morale, più che mai sul tema della Shoah. Ma il problema è logico. Quando ho scritto e proposto la legge sul Giorno della Memoria (che ovviamente sarebbe stato stravagante chiamare “il Giorno della Storia”) ero esattamente, per età e generazione, una delle persone giovani (nel mio caso al tempo del liceo) che, “a ridosso degli eventi” aveva chiesto invano agli insegnanti, tutti membri del Cln o di diverse componenti della Resistenza, di parlare della Shoah come “delitto italiano”. Ho raccontato questo colpevole vuoto nella mia introduzione al primo testo americano sulle leggi razziali e la persecuzione italiana (Susan Zuccotti, The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival, University of Nebraska Press, 1987, 1992). E appena eletto deputato (1996) ho fatto ciò che non ho potuto fare a “ridosso degli eventi”. L’ho fatto ai nostri giorni, contro notevoli resistenze.
Avrò espresso “gli interessi della cultura dominante” o piuttosto l’ossessione che non mi aveva mai abbandonato su ciò che potevo ancora testimoniare del tempo in cui ero vissuto, e soprattutto su ciò che avrebbero potuto fare i pochi sopravvissuti che erano ancora in grado di andare nelle scuole a raccontare, a consegnare ai più giovani la loro “chiave di Sara”, come faranno anche alcuni di loro venerdì prossimo?
Ho detto ai miei colleghi deputati, nell’intervento finale con cui ho cercato di ottenere l’unanimità, che la Shoah era un delitto italiano, e l’ho fatto con la intenzione di negare per legge la presunta estraneità italiana allo sterminio degli ebrei. Ho chiesto ai deputati di ricordare che in quegli stessi banchi, in quella stessa Camera, centinaia di deputati italiani avevano votato all’unanimità le peggiori leggi razziali d’Europa, firmate dal solo re europeo che ha accettato di perseguitare una parte del suo popolo, violando perfino lo Statuto Albertino del tempo.
Dov’è l’errore se dico che mai Storia e Memoria hanno coinciso in modo così netto, facendo insieme da impedimento a un vuoto che molti vorrebbero ancora?
Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2012