Dipak Das, divenuto direttore del Cardiovascular Research Center della University of Connecticut proprio grazie ai suoi studi sugli effetti benefici del resveratrolo, ha falsificato le sue ricerche, inventato esperimenti e piegato i risultati alle conclusioni che più gli facevano comodo
Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere: un bicchiere di vino rosso fa bene alla salute, in special modo al cuore e all’apparato circolatorio. Niente di più falso! Il padre di questa scoperta, Dipak Das, docente di chirurgia divenuto direttore del Cardiovascular Research Center della University of Connecticut proprio grazie ai suoi studi sugli effetti benefici del resveratrolo – la principale molecola antiossidante del vino rosso – ha falsificato i dati delle sue ricerche, inventato esperimenti e piegato i risultati alle conclusioni che più gli facevano comodo.
E lo ha fatto ben 145 volte, in 26 differenti articoli scientifici. Lo ha reso noto la stessa università americana per cui Das lavora, attraverso una corposa inchiesta di 60 mila pagine durata tre anni, con la quale ha segnalato a undici importanti riviste specializzate che le ricerche da loro pubblicate sul vino rosso negli ultimi anni, a firma di Dipak Das e dei suoi collaboratori, si basavano, in realtà, su dati manipolati. Talvolta in maniera grossolana. Come dimostrano le candide ammissioni di uno studente, giovane collaboratore dell’equipe di Das, in una mail indirizzata al professore allegata agli atti dell’inchiesta accademica interna: “Ho cambiato le figure come mi avevi detto”. Secondo il rapporto d’inchiesta, infatti, almeno due tesi di dottorato elaborate nel laboratorio di Das presentano “anomalie e immagini problematiche”.
Tutto ebbe inizio alla fine del 2008, con un esposto anonimo presentato all’amministrazione dell’Università del Connecticut, con il quale si manifestava più di un dubbio sulla bontà dei dati riguardanti le miracolose proprietà antiossidanti del vino rosso e s’invitava l’ateneo a fare approfondite indagini. Le verifiche partirono subito, anche se nel più stretto riserbo, tanto che Das continuò a portare avanti le sue ricerche. Anzi, per una sorta di par condicio, le estese anche a vino bianco e birra, cercando di dimostrarne i benefici effetti sulla salute. Grazie a questi studi Das conquistò, da un lato le copertine di riviste internazionali e, dall’altro, consistenti finanziamenti federali. Secondo quanto emerge dal dossier della commissione d’inchiesta, il professor Das era molto solerte nel falsificare i dati, soprattutto nei documenti concernenti le richieste di fondi. Un meticoloso lavoro di taglia e cuci, grazie al quale in alcuni esperimenti spostava, come le tessere di un mosaico, intere bande colorate che rappresentavano la traccia della presenza di specifiche proteine, fino a comporre il puzzle da lui desiderato. L’opposto di quello che ogni vero scienziato quotidianamente fa, o dovrebbe fare, in laboratorio.
Malgrado le prove schiaccianti, però, il professor Das, una volta informato dell’indagine, si è subito dichiarato estraneo alla vicenda, negando ogni manipolazione. E, replicando alle accuse, in una lettera all’università – inclusa adesso agli atti dell’inchiesta – lamenta “l’enorme carico di stress nel suo ambiente di lavoro” che, insieme alla notizia dell’indagine, gli avrebbe procurato gravi problemi cardiaci. Critica l’imponente mole degli atti, sottolineando come ci sarebbe voluto “più di un anno solo per leggere l’intero incartamento” e arriva persino ad accusare i suoi colleghi di “discriminazione razziale”, per via delle sue origini indiane.
Incurante delle accuse di Das, l’amministrazione della Connecticut University, più preoccupata dell’inevitabile figuraccia planetaria rimediata, ha invece avviato immediatamente le pratiche per il licenziamento del ricercatore, come riportato dalla rivista Nature. E sta adesso indagando sul possibile ruolo di studenti e collaboratori. “E’ nostra responsabilità correggere le pubblicazioni scientifiche erronee, avvisando i colleghi delle manipolazioni effettuate”, si legge in un comunicato dell’università americana. Ma le sentite scuse e il doveroso mea culpa da soli non potevano certamente bastare. L’ateneo statunitense, difatti, ha dovuto anche restituire 890 mila dollari di fondi federali ottenuti dal Governo americano grazie alle dichiarazioni fraudolente di Das.
di Davide Patitucci