Provate ad andare sul sito di una delle più grandi case editrici italiane. Cercate la pagina che in genere è intitolata “Invio manoscritti”. Tutte dicono di non accettare e di non leggere manoscritti non sollecitati. Cosa vuol dire manoscritto sollecitato? Vuol dire che tu devi essere prima famoso e la casa editrice ti contatta e ti chiede di mandare un tuo lavoro. Se sei un nome conosciuto, va bene tutto. Se non ti conoscono, non ti guardano nemmeno in faccia.
Questo vale anche per la letteratura internazionale. Non arriva un libro nelle vetrine italiane se non è già good-seller di qualche grande casa statunitense, britannica o francese. Non a caso in Italia anche quelli che mediamente amano scoprire nuove letterature, su certe zone del mondo, se va bene, possono nominare uno a due autori. Per il Magreb, ad esempio, il lettore italiano è condannato al Benjelloun e alla Djebbar scaldati e riscaldati all’infinito , fino alla nausea. Il Medio Oriente invece si riassume tutto in Nagib Mahfuz, almeno da quando ha preso il Nobel. Prima nulla.
La grossa editoria in Italia è quasi solo una macchina per vendere libri. Si pubblica solo ciò che vende bene. Non c’è spazio per il nuovo talento. Non c’è spazio per ciò che è da coltivare, da curare per farlo crescere. Si vogliono dei grandi scrittori “chiavi in mano”. Certo che in queste condizioni non ci può essere spazio per la creatività, per i giovani, per la diversità, per nuove vie e nuovi stili… a meno che si tratti di mode mediatiche e/o di importazione.
Su questo fosso tra la novità letteraria e i “grandi” editori italiani si è costruito un ponte esile e traballante che è la piccola e piccolissima editoria. Una miriade di case editric, progetti, associazioni, collettivi e centri studi che cercano di portare all’attenzione, almeno di quella piccola fetta di pubblico attento che c’è, nuove proposte letterarie, nuovi talenti, nuovi stili, nuovi linguaggi, letteratura del mondo…
La storia della Premio Nobel 2009, Herta Muller, che era pubblicata solo da Keller, una minuscola casa di Rovereto (Tn), la dice lunga. Chi, nello stato attuale delle cose, tranne una piccola e coraggiosa iniziativa, poteva scommettere su una strana scrittrice romena che per di più scrive in tedesco?
E’ in questo contesto, secondo me, che bisogna analizzare la situazione di questo doppio esordiente che è lo scrittore immigrato. Esordiente nella scrittura e nella cittadinanza.
A dire il vero, le prime testimonianze di questa nuova specie, non finirono fin da subito nella piccolissima editoria. Il fenomeno migratorio era del tutto nuovo e il fatto che qualcuno sentisse il bisogno di raccontarsi (pur con l’aiuto di qualche giornalista italiano) fu accolto con curiosità da parte del pubblico e con interesse da parte di editori anche di medie dimensioni. Le vendite furono buone e quindi altri pubblicarono libri simili. Ma finita la moda, il mercato si esaurì.
La seconda fase fu quella della piccolissima editoria. I primi immigrati arrivati avevano consolidato la padronanza della lingua e cominciavano a voler andare oltre la testimonianza della propria migrazione. E quindi diventarono semplici autori “italofoni”, esordienti in cerca di editore. E a quel punto si imbatterono in quel muro di vetro che incontrano tutti i giovani in questo campo.
Nello stesso momento, per motivi diversi, chi per sfruttare una fettina di mercato piccola ma non satura, chi per voglia di incoraggiare un fenomeno che considera interessante, chi per “succhiare” qualche finanziamento pubblico, chi per cavalcare l’onda e presentarsi come difensore dei poveri immigrati indifesi… iniziò a svilupparsi un certo numero di iniziative editoriali incentrate sulla così detta “Letteratura migrante”.
Una opportunità e una trappola. Opportunità perché ha permesso a molti di noi di pubblicare e di poter incontrare il pubblico in una infinità di incontri, presentazioni, dibattiti, conferenze, laboratori nelle scuole… Una trappola perché come ogni microcosmo, questo della “Letteratura migrante” è diventato un po’ un ghetto.
Ventanni dopo Immigrato di Salah Methnani (Theoria 1990) e Io venditore di elefanti di Pap Khouma (Garzanti 1990), ci sono ancora edizioni che pensano di aver scoperto l’acqua calda pubblicando la testimonianza di una donna romena o il racconto di un “ex-clandestino” senegalese. Ci sono ancora gli “esperti” che continuano a studiare e ad “esibire” qua e là questi “testimoni dell’immigrazione” come fossero delle oche ballerine. Ci sta ancora chi considera la “letteratura migrante” come un genere a sé. Ci sta di tutto. E in mezzo a tutto questo circo fatica a trovare strada una visione della produzione letteraria degli autori di origine immigrata semplicemente come opere letterarie in italiano e da valutare unicamente per il loro valore letterario. Un amico scrittore diceva: “Sono anni che scrivo, ho pubblicato vari libri, ho sentito dire di tutto sui miei libri. Ma finora nessuno mi ha detto se scrivo bene o male”.
Nel frattempo la produzione e il numero di questi autori cresce lentamente ma sicuramente. Alcuni hanno raggiunto una discreta fama, altri continuano a vendere numeri da fame. Ma tutti non aspirano ad altro che a essere considerati “scrittori. Punto”. Proprio come il cittadino di origine straniera che aspetta solo di essere considerato come un individuo portatore di diritti e doveri, di valori e di problematiche, rivendicazioni e proposte; e non più come “l’albanese”, “il nero”, “il marocchino”, “il vucumpra” o “l’extracomunitario”, anche gli autori sperano solo di essere considerati, letti, giudicati e criticati semplicemente come scrittori.
Karim Metre, nato in Algeria nel 1967, è insegnante, educatore e attivista politico e culturale. Ha un blog personale e collabora con il neonato blog collettivo ALMA Blog