Può capitare, senza alcuna falsa modestia, di compiere un grande atto di cucina in una tarda domenica mattina, senza pensarci troppo, con la voglia di far colazione e l’ora di pranzo che incombe.
Aprire la dispensa per tirar fuori un miele e ringraziare un figlio premuroso che, nel venir a fare due chiacchiere domenicali, ti porta un cartoccio di un buon prosciutto dolce, più un mezzo metro di buonissima schiacciata, facendoti così partire quella voglia di apparecchiare con attenzione il tavolo.
Gli occhi corrono dentro il piccolo frigorifero dove sai di aver riposto quelle “sante” uova di un nipote amato e stimato per il suo lavoro fra campagna e animali, fra vini e oli.
Rotte le uova in un’insalatierina e messo un padellino con un filo d’olio sul fuoco, cerco, al solito, un po’ di parmigiano per scoprire che me lo sono dimenticato. E neanche una crosta mi può venire in soccorso per una grattugiata insaporente.
Niente potrà far salire ad un piano più alto la frittatina di quel giorno di festa.
Ma poi, improvvisamente, vedo il tegamino che avevo riposto con quell’avanzo di cipolline borettane stufate in agrodolce. Cipolline fatte soffrire e soffriggere nell’olio per parziale brunita colorazione dove, a fine cottura, sfumata l’acqua per portarle a certa morbidezza, aggiungo sempre un mezzo bicchiere di buonissimo aceto di vino bianco e due cucchiaini di zucchero. Lì avviene l’alchimia di quelle cipolline che, nel raffreddarsi (fredde sono senz’altro più buone che calde) si fasciano di quella quasi glassa composta dal loro appiccicaticcio con l’aceto mitigato dallo zucchero.
In fretta le ho frantumate per sbatterle ulteriormente dentro le uova e versarle dentro il padellino.
Ma, nell’ascoltare mia moglie leggere un pezzo bellissimo di Aldo Grasso, mi sono forse distratto, o così ho pensato, perché, nel rigirarla, me la son trovata, diversamente da come sono abituato a trovarla, eccessivamente brunita. Borbottandomi contro per la sospetta distrazione, me la sono mal cotta rapidissimamente sull’altro lato, pensando così di rimediare.
Mi piacciono le frittate moscioline, ma qualche secondo in più non le avrebbe fatto male. Anche perché, alla prima forchettata, ho capito che, non la mia distrazione ma lo zucchero, aveva fornito quell’abbronzatura. Bene, come dirvi… nel mangiarla, accompagnata da pezzettini di schiacciata – ma sarebbe andato benissimo anche del semplice pane – sapevo come so, di aver fatto, nonostante l’errore, la frittata più buona del mondo.
Provare per credere.