Ci sono momenti, storici e politici, durante i quali s’inasprisce la guerra tra i difensori del passato e i paladini del futuro, tra i fautori della tutela del copyright attraverso il tintinnare di manette e gli utenti che domandano una gestione più libera dei diritti, tra i politici che propongono norme censorie e i provider che, di conseguenza, si preoccupano. Prova ne è il vivace dibattito che stiamo seguendo in questi giorni come conseguenza del crackdown di Megaupload e Megavideo.
Rileggiamo allora considerazioni – e ci troviamo a dover valutare posizioni – che, a cadenza regolare, ci fanno tornare in mente i vent’anni appena passati, quando apparirono i primi nastrini blu di protesta sui siti web in quel lontano 1996, l’anno in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti rispedì al mittente il Communication Decency Act di Clinton dichiarandolo incostituzionale e, soprattutto, censorio e non rispettoso della natura stessa di Internet.
Le due parti di questa guerra, di solito, mantengono posizioni poco malleabili (e negoziabili) e spesso intransigenti.
I grandi detentori di diritti, siano essi musicali, cinematografici o sul software, applaudono pubblicamente ad arresti e crackdown su larga scala. Poco è cambiato, insomma, da quando anche in Italia, alla fine degli anni Novanta, si confezionavano pubblicità che rappresentavano “pirati del software” detenuti in celle fredde e disumane. Le lobbies e le major applaudono alla over-protection del diritto d’autore, a mezzi investigativi, manette e raid che non guardano negli occhi nessuno (compresi i fan dei musicisti) e cercano di mantenere vivo, almeno simbolicamente, un passato che non si rendono conto essere ormai svanito. Non cavalcano l’onda, la vogliono affrontare di petto, ma non si accorgono – o fanno finta di non accorgersi – che l’onda ogni giorno aumenta. E non si può più fermare.
Dall’altra parte ci sono coloro che rimangono offesi da simili comportamenti ma che, in fondo al cuore, sono abbastanza tranquilli: sanno che queste azioni esemplari si riveleranno, dopo pochi mesi, inutili. Già si è visto come chiudere Napster non abbia fermato il peer-to-peer (anzi, lo abbia aumentato), limitare l’attività di The Pirate Bay non abbia ostacolato la circolazione dei torrent, attaccare WikiLeaks non abbia impedito la creazione di mirror. Tutti sanno già che il blocco di Megaupload e Megavideo non cambierà nulla: gli anticorpi della rete stanno già provvedendo. Tra due settimane tutto sarà come prima, su altri server e in altri Stati, o molti ex utenti saranno già migrati verso servizi simili. Ciò non toglie, però, che chi è pur consapevole dell’inutilità di certe azioni abbia la voglia, e l’energia, per protestare e, a ragione o a torto, lo faccia o in maniera più civile (dai blue ribbon della mia giovinezza in periodo di CDA ai black-out o disclaimer attuali, con il paradosso che si protesta contro la censura auto-censurandosi…) o adottando gli stessi metodi violenti di chi c’è dall’altra parte, tramite attacchi informatici (come scrisse l’hacker Emmanuel Goldstein in un editoriale apparso lo scorso anno su 2600 – The Hacker Quarterly in occasione dei denial-of-service di Anonymous contro società che avevano boicottato finanziariamente WikiLeaks).
Al contempo, molti avranno notato, la guerra che i detentori dei diritti conducono si sta spostando dagli utenti ai provider. È chiaro: i provider fanno gola, soprattutto quelli grandi, il movimento per individuare una responsabilità (o per costringere i provider a rimuovere contenuti senza garanzie) è molto vivace e progetti di legge fioccano non solo negli USA ma anche in Europa. Questo mi sembra un punto gravissimo: i provider oggi sono il nervo centrale dell’intero sistema attuale, e anche la tendenza a trattare i provider come custodi, come sceriffi, come criminali, come obbligati a installare filtri per controllare il traffico o a denunciare gli utenti, non è certo nuova (anche in Italia).
In molti si domandano, in tutto questo caos (che purtroppo, a volte, sembra diventare un ottuso gioco delle parti), che fine abbia fatto un approccio responsabile, un’aurea mediocritas, un giusto equilibrio che sia rispettoso di tutti quegli utenti, quegli studiosi e quei politici che non si ritrovano in nessuno dei due contesti, che sono inorriditi sia dalle manette per la violazione del diritto d’autore (!) sia dal dover prendere le difese, in alcuni casi, di criminali o truffatori, e che vorrebbero che l’attenzione fosse sempre sul bene della società tecnologica, sulla libertà di circolazione della cultura e dei materiali culturali, sulle garanzie processuali e il diritto.
Questi pensatori della “terra di mezzo” gradirebbero che si ragionasse, finalmente, in un’ottica costruttiva rispettosa della tecnologia e della libertà. Che si pensasse a un metodo di gestione del diritto d’autore che tuteli chi vuole conoscere, chi è consapevole di vivere in un periodo tecnologico che sta regalando alla razza umana la più ampia possibilità di conoscenza, di contaminazione e di impulsi continui mai avuta. Che ci si renda conto che bloccare questa circolazione di idee e contenuti, invece di ripensarla e di prevedere modalità innovativa per la retribuzione degli autori, è non solo anti-storico ma inutile.<
È vero, siamo in un periodo di guerra, e parlare di “pace” proprio nel momento in cui la guerra è più aspra può sembrare inutile. Che io ricordi, mai la guerra per il copyright è stata così violenta, multiforme ed estesa (oggi interessa tutti: utenti, politica, governi, forze dell’ordine, provider), ma l’esperienza di quasi vent’anni dovrebbe insegnare che nessuno, così, può vincere.
Forse però è venuto il momento per tutti di migrare da posizioni cristallizzate (e ormai ventennali) e di muoversi nella direzione della conoscenza, del rispetto degli utenti, dei fruitori dei contenuti e della modernità.