Me lo aspettavo. L’incidente della “Costa Concordia” ha fatto riemergere (è proprio il caso di dirlo…) in articoli in rete i miei studi sul rischio dei sottomarini nucleari, che portano nella pancia impianti nucleari e che incrociano davanti ai nostri litorali e nei nostri porti. E se Schettino avesse comandato un sommergibile nucleare che attraccava a La Spezia, in Sicilia, e in molti altri porti italiani?
Siamo già andati vicino al disastro nel settembre 2003: il sottomarino nucleare Hartford si danneggiò gravemente per aver urtato contro il fondale marino, nella zona vicina alla Base per sottomarini nucleari della Maddalena, in Sardegna. L’incidente costrinse il sottomarino a ritornare negli Usa per riparazioni, impiegando un mese di viaggio. Il comandante della base e il comandante del sottomarino vennero processati e rimossi.
Negli anni più recenti, addirittura l’intera Base della Maddalena è stata abbandonata. Le misurazioni della radioattività diedero inizialmente dati allarmanti. Poi, la straordinaria capacità dell’ecosistema marino fece sì che le acque tornassero pulite naturalmente. Ma noi riuscimmo a determinare la presenza di materiale radioattivo, ed in particolare Plutonio, in certe alghe nella zona dell’arcipelago della Maddalena. A fronte di un rilascio fortunatamente contenuto, questi organismi marini servirono da “bioconcentratori” dell’inquinante, un po’ come i famigerati “pesci al mercurio” o gli altrettanto tristi “funghi al Cesio” (senza parlare delle acque di Fukushima), permettendoci di dimostrare – contrariamente a quanto sostennero le autorità militari – che era avvenuta una sia pur limitata immissione di inquinanti nelle nostre acque. Il nostro lavoro è stato poi pubblicato su riviste scientifiche internazionali del settore, come ad esempio il “Fresenius Environmental Bulletin” tedesco, e riportato nell’ambito di Conferenze internazionali.
Quale rischio abbiamo corso? Quali rischi stiamo correndo tuttora, al di là del disattendere moralmente la volontà popolare espressa dai referendum sul nucleare? Secondo i miei dati, molti porti italiani ospitano sottomarini o unità navali nucleari (Augusta, Napoli, Brindisi, Cagliari, Castellamare di Stabia, Gaeta, La Spezia, Livorno, Taranto e Trieste).
Purtroppo, la sicurezza dei reattori nucleari su navi a propulsione nucleare è secondaria rispetto ad altre ragioni, strategiche, di produzione e di presenza della flotta. Poi, la statistica sul numero e la gravità di incidenti avvenuti a questo tipo di reattori nel passato è amplissima, con dispersioni in mare di radioattività e molte vittime. In quaranta anni, si sono avute ben oltre un centinaio di emergenze nucleari o radiologiche, anche se quasi tutte in mari lontani e con la flotta sovietica: ma gli incidenti nel Mediterraneo e alle flotte Usa, Francese, Britannica non mancano.
Ancora, in campo nucleare civile esistono sistemi di sicurezza che sono obbligatoriamente presenti e senza i quali l’impianto non ottiene il permesso di funzionamento da parte delle autorità: tuttavia, su un sottomarino, la presenza di questi sistemi di sicurezza è limitata, per ragioni di spazio, di peso e di funzionalità. Essendo vascelli militari, i sottomarini nucleari sono soggetti all’approvazione e alla responsabilità esclusivamente delle autorità militari. Quindi ci ritroviamo col paradosso di reattori nucleari che non otterrebbero la licenza di esercizio civile in nessun paese, e che circolano invece liberamente nei nostri mari.
Il mio allarme venne ripreso dal giornalista siciliano Antonio Mazzeo, quando la scorsa primavera la Sicilia divenne la base dalla quale vorticosamente andavano e venivano i sottomarini nucleari che collaboravano alla guerra contro la Libia. La sua denuncia mise in evidenza il pericolo per gli abitanti della Rada di Augusta.
Esistono dei piani di Emergenza per i “Porti Nucleari” italiani? Cosa si può fare in caso di incidente? L’elaborazione dei piani e la loro pubblicità è richiesta dalla Legge, ma molte di queste informazioni mancano, a causa del “segreto militare”. Le informazioni per il siracusano sono comunque inesistenti, mentre dove si è avuto accesso ai piani di emergenza di altri porti nucleari, la loro valutazione ha dato esiti agghiaccianti: in caso di incidente, un rimorchiatore dovrebbe intervenire per cercare di portare al largo l’unità danneggiata e magari in fiamme, che nel frattempo avrebbe però fatto a tempo a cospargere ampiamente l’ambiente di radioattività. E i punti di attracco e di fonda delle imbarcazioni nucleari sono posti a distanze minime da aree densamente abitate.
La conclusione è semplice: in nessuno degli attuali porti italiani è ammissibile la presenza di unità nucleari. Anche se chi le pilota è un “capitano coraggioso” e abile, perché e per cosa dobbiamo continuare a correre questi gravi rischi?