“Li guardo con affetto. Portano dentro un peso perché sanno che non possono rimediare a ciò che hanno fatto. Dopo 34 anni, io sto meglio di loro perché ho un dolore del quale non sono colpevole”. Descrive così, Agnese Moro, le Brigate rosse, parlando degli esecutori dell’omicidio di suo padre, lo statista Aldo Moro ucciso il 9 maggio del 1978. Ospite del Comune di Monghidoro (Bologna) in occasione della rassegna ”La verità rende liberi”, la più piccola dei figli del presidente della Dc dialoga con Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione vittime dei familiari della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, sugli interrogativi della storia italiana.
“Aldo Moro fu lasciato morire”. Su questo non c’è ombra di dubbio per la figlia del “cavallo di razza” della Dc, secondo la quale ci fu “un’inerzia attiva per far sì che lui non tornasse”. Eppure non c’è rancore quando parla di quelle responsabilità che per lei sono di chiarissima attribuzione. “Penso che i terroristi non vadano guardati come pazzi, ma come persone. Hanno capito che ciò che hanno fatto era assolutamente sbagliato, e alcuni di loro hanno pagato per questo. Ma in questo paese, se qualcuno ha fatto qualcosa di male, noi non lo riprendiamo. Anche se la Costituzione vorrebbe e recita il contrario. Dobbiamo continuare a negargli dei diritti?” Certo, chi ha
premuto il grilletto e organizzato il sequestro di Moro non è in discussione: “Io non credo a una volontà al di fuori delle Br”, dice Agnese Moro. “Sicuramente ognuno ha giocato la sua partita sfruttando l’occasione”.
“Un formicaietto”, così chiama l’intreccio di poteri che univa servizi segreti italiani a quelli americani, la P2 e i vertici del potere della prima Repubblica fino alle bande armate, “che si agitava intorno a un uomo che combatteva la sua battaglia umana e politica da solo”. E che dal ‘76 stava lavorando all’idea di un governo di solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer, per “rendere la democrazia effettiva. E questo non piaceva a tutti. Mio padre è stato ucciso da quelli che non credono che la democrazia equivalga alla giustizia”.
Per quel “formicaietto”, Moro doveva morire, come ricostruisce l’ex giudice istruttore e ora avvocato di Maria Fida Moro Ferdinando Imposimato nel suo omonimo libro, scritto con il giornalista Sandro Provvisionato ed edito Chiarelettere. L’ex magistrato è oggi pronto ad andare a Strasburgo pur di fare luce sulle parole inserite nel 2008 in un fascicolo archiviato della procura di Roma da un militare che avrebbe sorvegliato il covo-prigione di via Montalcini nei 15 giorni precedenti all’uccisione.
Non dimentica Agnese Moro, oggi sociopsicologa e ricercatrice: “Noi sappiamo tutto: sappiamo che c’era l’attività esplicita della loggia massonica P2 di cui allora non si conosceva ancora l’esistenza, e sappiamo che il comitato di crisi, il gruppo che governava le indagini sul rapimento, era tutto di appartenenti alla loggia. Quello che non facciamo è trarne le conseguenze”.
Ma non prosegue quando Bolognesi ribadisce: “Non dobbiamo dimenticare che pochi mesi prima del sequestro furono cambiati tutti i vertici dei servizi segreti da Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, i Dc allora rispettivamente ministro degli Interni e presidente del Consiglio democristiani”. Per la figlia dello statista assassinato, la ricerca delle responsabilità non avviene solo seguendo la pista giudiziaria. E ricorda: “Ci sono altre verità che non sono state neanche toccate. Come quella politica, certo, ma anche quella sociale. Davvero possiamo considerare le Br gruppetti isolati?”.
“La contestualizzazione aiuta a capire più della criminalizzazione. E soprattutto, permette una presa di responsabilità individuale”, spiega Agnese Moro. “Noi italiani ci siamo disabituati a pensare che ciascuno può fare la differenza. Ci hanno convinti che arriverà sempre qualcuno che ci salverà. Ma la ricostruzione di una democrazia non è una cosa che va avanti da sola: è una gigantesca lotta contro poteri che non la vogliono. Siamo disponibili a sacrificare qualcosa, perché questo cammino riprenda?”
Durante la serata con Paolo Bolognesi, vengono letti stralci delle lettere che il politico scrisse dalla “prigione del popolo” brigatista di via Montalcini alla sua “Noretta”, la moglie, e la domanda arriva proprio dalle parole dell’uomo assassinato: “Io mi chiedo in coscienza: Zaccagnini (Benigno, allora segretario della Dc, ndr) come fa a rimanere al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa?”
Come uomo, oltre che come un pilastro della storia italiana, lo ritrae la figlia. Parla di un Moro tenero, “buffo”. “Un maledetto secchione”, lo definisce la figlia nel libro Un uomo così (Rizzoli), “che andava in spiaggia con giacca e cravatta perché gli italiani dovevano essere rappresentati con dignità”. E conclude: “A casa avevamo due avversari: la politica e i suoi allievi. Tanto che dal carcere scrisse un biglietto al suo assistente pregandolo di scusarsi con gli studenti perché quell’anno non avrebbe potuto portare a termine il corso”. Infine pronuncia un frase che sulla figura di Moro dice tutto: “Gli italiani erano come un membro della nostra famiglia”.