Articolo di Benedetta Fallucchi, tratto dal sito China-Files
Due settimane di intense discussioni con la famiglia per decidere quale modello di lavatrice acquistare. Anche questo era Steve Jobs.
Due settimane per soppesare i pro e i contro, per comparare le performance dei vari modelli, valutare il risparmio energetico. In definitiva, per parlare di design – come affermò lui stesso nel 1996 a Gary Wolf, giornalista di Wired. Perché “alcune persone pensano che il design corrisponda all’estetica dei prodotti. Ma se uno ci pensa meglio, il design ha a che vedere con il funzionamento delle cose”. I biografi del guru americano hanno speso molte parole sulla cura per il dettaglio – che, nel caso dei prodotti Apple, ha a che fare tanto con la funzionalità quanto con l’apparenza degli oggetti – e sulla filosofia di fondo dell’azienda di Cupertino.
In molti hanno evidenziato un debito culturale nei confronti delle filosofie orientali (ormai è entrata nell’aneddotica la fuga in India nel 1973 di un giovanissimo Steve), e in particolar modo verso lo Zen Sōtō – una delle due maggiori scuole giapponesi del Buddhismo Zen. Si è fatto cenno anche del suo interesse per il Giappone.
Recentemente il giornalista freelance Hayashi Nobuyuki – che da molto tempo si occupa della Apple – ha cercato di ricostruire la trama di questi influssi giapponesi sul compianto californiano. Partendo proprio dallo Zen e dalla nota frequentazione di Jobs del centro Zen di Los Altos in California, dove fatale fu l’incontro con il monaco Kōbun Chino Otogawa. Otogawa divenne un maestro per Jobs. Quando quest’ultimo fondò NeXT nel 1985 fu chiamato in qualità di “consigliere spirituale”, mentre nel 1991 officiò il matrimonio di Jobs con Laurene Powell. Secondo Nobuyuki, Jobs a un certo punto della sua vita fu addirittura tentato di lasciare tutto per entrare come monaco nel tempio di Eiheiji, luogo di riferimento per il Zen Sōtō.
Ad ogni modo, molti atteggiamenti e molte considerazioni di Jobs sembrano presentare tratti comuni al Buddhismo Zen. Non da ultimo quella domanda che, ipse dixit, Jobs rivolgeva a se stesso tutte le mattine: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”.
La ricognizione di Nobuyuki tratteggia con pochi cenni le affinità nell’approccio di Jobs con la filosofia Zen – si tratta del resto di un argomento già sviscerato. Ma, sulla scorta di altri commentatori, si possono citare altri aspetti, come l’insistenza di Jobs sul concetto di “mente del principiante”, ad indicare un’apertura verso il mondo scevra di dogmi e facili stereotipi. O il carattere intrinseco di alcuni prodotti Apple, che portano in sé stessi il concetto di miyabi, inteso come eleganza, raffinatezza. O quello ancor più pregante di ma. Il ma viene approssimativamente descritto usando il termine ‘vuoto’, benché sia qualcosa di più complesso. Esso rappresenta la perfetta concatenazione di vuoto e pieno: ogni cosa è definita non solo da ciò che è, ma anche da ciò che non è.
Steve Jobs, spesso oggetto di critiche per quelle che sarebbero state poi innovazioni imprescindibili, più volte dichiarò di essere estremamente orgoglioso non solo di quello che la Apple aveva prodotto, ma anche di ciò che non aveva prodotto. Il nome di Jobs si porta ormai appresso l’etichetta Zen. Non per caso da pochi giorni è uscito in America il fumetto Lo Zen di Steve Jobs. La graphic novel – risultato della collaborazione tra Caleb Melby, reporter di Forbes e dell’agenzia creativa JESS3 – ricostruisce, o, meglio, re-immagina, la relazione che unì negli anni Jobs e Otogawa. Melby descrive il volume come un “ibrido tra giornalismo e scrittura creativa”: perché se è certo che la Apple fu in qualche misura intrisa di Buddhismo Zen, nessuno conosce davvero i contenuti delle conversazioni tra il monaco e il guru informatico. I due personaggi sembrano legati da un rapporto simile a quello tra Luke Skywalker e Yoda di Guerre Stellari, ed entrambi risaltano per il loro anticonformismo e per lo spirito innovatore.
Per quanto resti uno dei principali aspetti, lo Zen non è l’unico nesso tra Jobs e il Giappone. Nobuyuki sostiene che l’imprenditore americano fu anche fortemente influenzato dalle aziende giapponesi. Una in particolare: la Sony. Jobs era un grande ammiratore della Sony e del suo cofondatore Akio Morita; si era entusiasmato per le radio transistor e per i televisori Trinitron.
C’è persino un aneddoto che riconduce alla visita degli stabilimenti Sony la passione per i maglioni a collo alto distintivi di Jobs: incuriosito dal fatto che tutti gli impiegati indossassero una divisa, l’americano ne chiese il motivo, e Morita gli spiegò che, subito dopo la guerra, era l’azienda a fornire ogni giorno l’abbigliamento ai lavoratori. Jobs rimase colpito dalla storia e provò a importare l’abitudine. I suoi dipendenti non la presero bene e lui applicò a sé la nuova regola. Così cominciò a richiedere allo stilista Issey Miyake (giapponese, ça va sans dire) un numero esorbitante di maglie a collo alto.
L’abbigliamento è, del resto, un aspetto del più generale apprezzamento verso la manifattura giapponese da parte di Jobs: per esempio amava molto le ceramiche di Shakunaga Yukio, da cui negli anni comprò molti pezzi.
Infine, il cibo, altro capitolo di rilievo. Jobs era un vegano ortodosso, eppure per la cucina giapponese faceva un’eccezione. Adorava la soba (una sorta di pasta di grano saraceno) – al punto da inviare il cuoco del Café Mac a studiare alla Tsukiji Soba Academy di Tokyo e da creare appositamente un piatto per sé (sashimi soba).
Era inoltre un assiduo frequentatore del ristorante Kaygetsu in California. Quando, non molto prima della sua scomparsa, Jobs venne a sapere che il ristorante stava per chiudere, offrì allo chef un posto nella caffetteria della Apple.
Zen, tecnologia, artigianato, cibo: erano insomma molte le cose che Jobs amava del Giappone.
Non solo un innamoramento estetico perché parafrasando ciò che il californiano diceva del design, si può dire che quell’estetica – minimale e limpida – è il Giappone.
* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello “Yomiuri Shimbun”, il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).