Il decreto del governo in tema di liberalizzazioni coinvolge un insieme molto ampio di settori e attività. Con alcune tematiche trasversali. Bisogna resistere all’impulso di fornire stime immediate sui benefici attesi dai provvedimenti. Da evitare anche un approccio quasi contabile alla quantificazione degli effetti, che ignora come lo sviluppo della concorrenza operi sull’intera catena produttiva. La maggior flessibilità in settori fino a ieri protetti richiede ammortizzatori sociali calibrati sulle loro caratteristiche e interventi capaci di accompagnarne la riqualificazione.
di Michele Polo*, Lavoce.info
Il decreto varato dal governo Monti in tema di liberalizzazioni coinvolge un insieme molto ampio di settori e attività promuovendo un articolato insieme di misure. Molti pezzi commentano su lavoce.info le misure adottate riferendosi ai principali comparti produttivi. È tuttavia utile affrontare alcune tematiche trasversali che si ripresentano in molti settori oggi sottoposti alle liberalizzazioni.
La contabilità dei benefici
Il primo problema è quello di resistere all’impulso di fornire immediate stime sui benefici attesi dalle misure. In questi giorni abbiamo assistito a una girandola di numeri, risparmi per famiglia che da un giorno all’altro passavano da 400 euro annui a oltre 1.000 per poi tornare a 500. Inutile dire che queste stime sono prodotte senza spiegare la metodologia, spesso per la totale assenza di quest’ultima. Ma anche i riferimenti avanzati dal governo, con un impatto fino a 10 punti di Pil, per quanto riferite a studi dell’Ocse, usano riferimenti che difficilmente possono corrispondere allo specifico pacchetto adottato, nella specifica situazione in cui si trovano l’economia italiana ed europea. Esiste molta evidenza sugli effetti benefici che le liberalizzazioni hanno esercitato in specifici settori, e anche numerosi studi a livello macro. Ma ci offrono al massimo un riferimento qualitativo (gli interventi servono, e in tempi non biblici).
Un secondo errore che si riscontra spesso nei commenti di questi giorni riguarda un approccio quasi contabile alla quantificazione degli effetti: si sostiene che, se il segmento liberalizzato, ad esempio la distribuzione dei carburanti nelle stazioni di servizio, nella complessiva filiera produttiva conta per una percentuale limitata sul prezzo finale, una compressione dei margini in quella attività a seguito della concorrenza non potrà che avere effetti limitati sul prezzo che il consumatore finale paga. In questi commenti si perde tuttavia di vista un aspetto fondamentale su come lo sviluppo della concorrenza operi sull’intera catena produttiva a partire dalla fase a valle della distribuzione. Se, seguendo l’esempio precedente, le stazioni di servizio possono operare rifornendosi da raffinatori diversi, sottoporranno questi ultimi a una concorrenza che oggi non avviene, con effetti benefici sul costo all’ingrosso del carburante che, quello sì, rappresenta una voce significativa del prezzo finale.
L’impatto sociale
Una terza osservazione relativa ai processi di liberalizzazione riguarda l’impatto sociale sugli assetti del settore. Nella scorsa settimana, ad esempio, abbiamo letto nelle stesse pagine dei giornali tre diverse notizie relative alla categoria dei taxisti, che grazie alla loro grande vocalità e ai toni gladiatori che hanno assunto, si sono guadagnati le prime pagine al di là della reale importanza di questo settore nel capitolo liberalizzazioni. Abbiamo letto che denunciano un reddito medio di 19mila euro all’anno, che pagano una licenza tra i 100mila e i 200mila euro e che l’utilizzo dell’auto e le forme di organizzazione del lavoro sono spesso inefficienti. Questi tre dati illustrano un intreccio di problemi che si ritrovano anche in altri settori sottoposti a liberalizzazione e che si caratterizzavano per le barriere e i regolamenti che impediscono la libera entrata, dal commercio al dettaglio ai servizi professionali. In queste situazioni, forme di organizzazione del lavoro inefficienti sopravvivono grazie a una diffusa evasione fiscale e a prezzi eccessivi: l’utente ne risulta penalizzato due volte, come acquirente e come contribuente.
E tuttavia, aprendoli alla liberalizzazione, non è possibile trascurare il fatto che questi settori richiedano processi di ristrutturazione rilevanti, senza i quali la compressione dei margini dovuta alla concorrenza, unita a più incisive politiche di contrasto all’evasione fiscale che il governo ha annunciato, rischiano di espellere dal mercato molti operatori. Il parallelo con la filosofia che il governo intende adottare nelle riforme del mercato del lavoro, con più flessibilità unita ad ammortizzatori sociali e a processi di riqualificazione professionale, appare evidente. Settori esposti alle liberalizzazioni richiedono la gestione di fasi transitorie durante le quali le piccole imprese e le attività individuali dei prestatori di servizi dovranno riqualificarsi, accedere a forme di organizzazione del lavoro più efficienti, promuovere processi di aggregazione in grado di sfruttare possibili economie di scala. La maggior flessibilità a cui settori fino a ieri protetti si sottoporranno dovrà richiedere anche ammortizzatori socialicalibrati per le caratteristiche di queste attività e interventi capaci di accompagnarne i sentieri di riqualificazione. Queste problematiche non sono diverse da quelle che le imprese manifatturiere italiane hanno dovuto affrontare con l’euro e la fine della lunga stagione della competitività riguadagnata a suon di svalutazioni della lira. Riconoscere la necessità di accompagnare i processi di aggiustamento può accelerare l’emergere dei frutti delle liberalizzazioni e stemperare l’arroccamento difensivo delle categorie interessate.
* Michele Polo ha svolto i suoi studi presso l’Università Bocconi e la London School of Economics. E’ professore Ordinario di Economia Politica presso l’Università Bocconi. Ha trascorso periodi di ricerca a Lovanio, Barcellona, Londra e Tolosa. I suoi interessi di ricerca riguardano l’economia e la politica industriale, l’antitrust e la regolamentazione.