Da quando, nel corso degli anni ’80, è apparsa la Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita (Sida per i francofoni, Aids per gli anglofoni) ed è stata attribuita al virus denominato Hiv (Human Immunodeficiency Virus), ci sono state violente contestazioni sulla natura della malattia e sul reale rapporto causale tra Hiv e Aids.
Il più tenace avversario dell’ipotesi Hiv-Aids è il prof. Peter Duesberg della prestigiosa Università di Berkeley in California, che ha ripetutamente pubblicato studi critici sull’argomento, l’ultimo dei quali alla fine del 2011 su una rivista italiana. In questo studio si sostiene che i dati epidemiologici dell’Aids sono incompatibili con quelli delle epidemie virali classiche (cioè l’Aids non si comporta come il morbillo o la varicella), una osservazione che è indiretta e che confronta una malattia cronica o subcronica come l’Aids con malattie acute.
Il 5 gennaio di quest’anno la prestigiosa rivista scientifica Nature ha commentato molto criticamente questo studio e si deve riconoscere che coloro che negano che l’Hiv sia l’agente causale dell’Aids sono ormai ridotti ad uno sparuto gruppo di minoranza; però hanno un certo seguito di pubblico perché fanno molto rumore.
Anche se i dati finora accumulati a sostegno della relazione Hiv-Aids sono schiaccianti, non è facile districarsi tra le argomentazioni che sono state avanzate a favore o contro l’ipotesi. Il primo punto da considerare è il seguente: l’Aids causato da Hiv non è l’unico tipo di immunodeficienza: esistono immunodeficienze congenite come l’agammaglobulinemia di Bruton e immunodeficienze acquisite benigne come quella che può verificarsi nel corso del morbillo. Consegue che non sempre chi ha una immunodeficienza è anche sieropositivo per l’Hiv; questa condizione è vera però per la maggioranza delle malattie perché è raro che un quadro clinico (una sindrome) sia anequivoco e caratteristico di una sola malattia: non tutti quelli che hanno una enterite hanno la febbre tifoide, non tutti quelli che hanno una polmonite sono stati infettati dallo pneumococco, etc.
Il secondo punto da considerare è che non tutti quelli che sono sieropositivi per l’Hiv sono affetti da Aids conclamato: la malattia ha un lungo periodo di incubazione e la fase preclinica può durare anni; non siamo neppure totalmente certi che tutti i sieropositivi svilupperanno la malattia, sebbene questo accada nella stragrande maggioranza dei casi. Anche questo punto è banale e comune a molte altre malattie: anzi, per alcune malattie come la febbre tifoide esistono i portatori sani che ospitano il germe nell’organismo e non si ammalano ma possono trasmettere il contagio.
Visto che esistono casi di immunodeficienza non Hiv e casi di Hiv senza Aids, cosa dimostra la relazione tra virus e malattia? La domanda più semplice da porsi è quale sia l’aspettativa di vita di un sieropositivo rispetto a quella di un non-sieropositivo della stessa età, gruppo etnico, classe sociale, etc. Uno studio danese pubblicato nel 2007 ha dimostrato che il tasso di mortalità tra i non-sieropositivi era dello 0,47% all’anno, quello dei sieropositivi trattati prima dell’introduzione delle terapie più recenti del 12,4% all’anno e quello dei sieropositivi trattati con le terapie più moderne del 2,5% all’anno. Dati così precisi sono possibili perché lo studio è enorme: sono state seguite quasi 400.000 persone nel periodo compreso tra il 1995 e il 2005 (l’intervallo di tempo è molto grande per uno studio clinico ma è reso necessario dal decorso relativamente lungo della malattia).
La differenza nel tasso di mortalità annua tra sieropositivi trattati con i farmaci disponibili nel 1995 e i non sieropositivi è impressionante: oltre 25 volte; ma è notevole anche l’effetto del miglioramento dei farmaci disponibili, che risulta in una diminuzione della mortalità di 5 volte nel decennio 1995-2005. Poiché i farmaci sono specifici inibitori di enzimi del virus, anche questo dato costituisce una forte conferma del ruolo causale dell’Hiv nell’Aids. Ci sono molti studi simili a quello descritto che si potrebbero citare (ad esempio questo) ma il discorso diventerebbe ripetitivo; vale la pena di nominarli per sottolineare che è difficile dubitare del quadro complessivo che ne emerge.