Sfidando le ire dei “benaltristi”, ritorno brevemente sulla vicenda di Wilman Villar, il detenuto – un volgare, anzi, un volgarissimo “delinquente”, secondo le autorità cubane – morto in carcere al termine d’uno sciopero della fame che (sempre secondo le autorità cubane) mai è esistito. Lo faccio non perché, come ha sostenuto un recentissimo editoriale del Granma, desidero che le “potenze imperiali” facciano a Cuba quel che han fatto nella Libia di Gaddafi, ma perché a suo modo molto interessante è analizzare quel che sul tema ha scritto ieri il più prestigioso dei blogger filogovernativi. Vale a dire: Fidel Castro Ruz, fino a non troppo tempo fa “primer segretario del Partido Comunista de Cuba, presidente del Consejo de Estado y de Ministros”, nonché, ovviamente, “comandante en jefe”.
Titolo della riflessione di Fidel (come sempre pubblicata da Cubadebate): “La frutta che non cadde”. Laddove per frutta s’intende, naturalmente, la medesima Cuba, mela da sempre agognata dall’Impero, ma – grazie alla rivoluzione – sempre saldamente rimasta attaccata al ramo della sua indipendenza. Per Fidel, infatti, proprio questo è il caso di Wilman Villar Mendoza: null’altro che l’ultimo (ed ovviamente vano) tentativo di “scuotere l’albero”. O, più esattamente, l’ultima menzogna ad arte elaborata dai nemici della rivoluzione per “far cadere la frutta”.
La brevità non è mai stata, notoriamente, tra le più spiccate virtù di Fidel Castro. E quest’ultima riflessione non fa, in alcun modo, eccezione. Anche in quest’occasione, infatti, il comandante en jefe non manca di dilungarsi assai nella rielaborazione delle ragioni per le quali l’impero mai è riuscito (e mai riuscirà) a mettere le mani su quella che il presidente William McKinley durante la guerra Ispano-americana ebbe a definire “that infernal little republic”, quella piccola infernale repubblica. Lo fa, Fidel, da par suo, tra mito (il mito di se medesimo) e Storia. Ma lo fa, ancora una volta, con più d’una buona ragione. Poiché non v’è dubbio alcuno: per quanto miserando possa apparire, oggi, il punto d’arrivo della rivoluzione castrista, proprio in questo – nell’aver creato una “identità cubana” di fronte alle pretese coloniali o neo-coloniali del “grande vicino del nord” – sta la grandezza di quello che, nel bene o nel male, è stato per almeno 40 anni l’elemento cardine nella storia delle relazioni tra il nord ed il sud delle Americhe.
E fin qui tutto bene. Il male comincia quando Fidel viene, come si dice, al punto. Ovvero: quando spiega per quali ragioni ciò che i nemici della rivoluzione scrivono del caso Wilman Villar è soltanto una menzogna. Wilman, dice Fidel, è un semplice “delinquente”, morto in carcere a dispetto dell’esemplare assistenza medica, perché questo è quello che scrive il Granma. “Un giornalista del Granma…o di qualunque organo rivoluzionario – recita la riflessione – può equivocarsi nell’analisi d’un avvenimento. Ma giammai fabbricherebbe una notizia o s’inventerebbe una menzogna”. Tutto qui.
La cosa – è inutile tornare a spiegare le ragioni per le quali la versione governativa dei fatti appare impresentabile – fa, come si usa dire, ridere i polli. Ed ancor più ridicola appare, per contrasto, se messa a confronto con la grandiosità delle premesse storico-etiche della riflessione. Sicché questa è l’inevitabile domanda. Come può un uomo che è stato tra i grandi protagonisti – scriverei i giganti, non temessi di unirmi al coro d’un culto che già tanti danni ha procurato a sinistra – scrivere una simile panzana?
Qualcuno potrebbe essere tentato di tirare in ballo lo stato di salute mentale d’un uomo che, ormai 86enne, nelle sue ultime apparizioni pubbliche è apparso a molti assente, svanito. Ma io credo sarebbe un errore. Perché, per quanto invecchiato possa essere l’un tempo vulcanico cervello di Fidel, la verità è che questo tipo di – chiamiamola così – demenza senile affonda le sue radici in qualcosa di più intrinseco, non alla sola rivoluzione castrista, ma ad ogni regime nel quale il potere quale venga, per troppo tempo, praticato in forma assoluta. Ci sono, a Cuba, dei precedenti. Qualcuno ricorda il processo-farsa che, nel 1989, mandò a morte per complicità in traffici di droga il generale Armando Ochoa? Quel processo – una vergogna per chiunque abbia un minimo rispetto dello stato di diritto – venne trasformato dal regime in un video che doveva, nelle intenzioni, essere uno strumento di propaganda per esportazione. Qualcuno ricorda la “primavera nera” del marzo 2003 (un’altra indelebile vergogna)? I dettagli di quell’operazione divennero un libro – “Dissidentes” – che è, ancor oggi, il più completo atto d’accusa contro un regime poliziesco, lo specchio d’una società squallidamente fondata sulla reciproca delazione dei suoi membri…
L’età può, nel caso di Fidel, aver giocato la sua parte. Ma il punto vero – volendo parafrasare la più abusata massima andreottiana – è che è il potere assoluto quello che rincitrullisce chi ce l’ha. Il castrismo quel potere ce l’ha avuto per oltre mezzo secolo. E da quel potere è stato rincitrullito. Come si diceva un tempo: una risata lo seppellirà…
(Foto: LaPresse)