C’è da chiedersi se la agenzie di rating vogliono la pelle dell’euro”. A pensarla così non è solo il giornalista del francese Libération, ma un po’ tutta l’Europa dopo il taglio di cesoie delle famigerate tre sorelle del rating, che hanno di fatto stroncato la politica economica di mezza Europa. Dopo aver assimilato nei mesi passati i paesi europei “periferici” a junk bond (letteralmente, titoli spazzatura), adesso hanno calato una pesante mannaia sulle misure di austerity che in un momento di crisi così grave i paesi europei sono stati costretti a varare.

Qui non si sta a sindacare i motivi del downgrading, che a nostro avviso più da che ragioni economiche sono dati da ragioni politiche, ma si intende “mettere sotto osservazione” tali “società” e capire quali siano le ragioni di base che ne muovono il giudizio. Il declassamento è sacrosanto e il Governo lo sa: se ad un piano di risanamento del bilancio non  se ne accompagna uno di crescita, il rigore finisce per distruggere investimenti, posti di lavoro. E senza lavoro l’economia non riparte ed i consumi neanche.

Le hanno definite nemico pubblico numero uno, “magistratura finanziaria necessaria alla fluidità dei mercati”, “cricca affaristico-finanziaria” per finire con “tavole della legge che orientano i mercati finanziari”. Di fatto parliamo di società private, finanziate da fondi speculativi e lautamente ricompensate dagli Stati (Uniti) per i loro servigi analitici. Di fatto il mondo politico europeo (ma forse anche mondiale), per dirla con Lettieri e Raimondi, irresponsabilmente ha dato alle agenzie di rating “quasi un potere di legge”. La reputazione delle agenzie non è affatto limpida, e questo per diversi motivi: innanzitutto la loro connivenza con la politica finanziaria di taluni Stati e la loro composizione sociale, che vede intrecciarsi interessi privati dei soci (il più delle volte società finanziarie, fondi di investimento, banche e tycoon della finanza). Insomma, una lunga compagine di fondi a maggioranza statunitense, che da un lato rappresentano i maggiori investitori che fanno delle rating il loro mantra; dall’altro, ne sono anche i proprietari di fatto, influenzandone i giudizi. In Italia questo si chiama conflitto di interessi.

Per non parlare poi dell’enorme rischio di insider trading e manipolazione di mercato: chi controlla è anche il controllato, e in passato le agenzie hanno dimostrato di non essere proprio una fortezza nell’impedire la divulgazione di informazioni “sensibili”. Basta questo per intendere le ragioni dei controlli a tappeto della finanza e della Consob nelle sedi milanesi delle suddette agenzie.

Non sappiamo ancora quale sarà il destino della zona euro, se la profezia economico-finanziaria dei Maya dei nostri giorni (le agenzie) porterà al collasso tanto presagito, oppure no. L’impressione è che queste società apertamente schierate a tutela degli interessi di Wall Street (attenzione, di Wall Street, non del Governo americano e degli americani!), governate dai signori della finanza abbiano tutto l’interesse ad influenzare le politiche economiche dei paesi della zona euro e non solo, visto il chirurgico tempismo con cui questi giudizi vengono pubblicati.

Sarebbe interessante calcolare il prezzo che i cittadini sono costretti a pagare in termini economici, perché – sia chiaro – il declassamento non è solo un fatto di prestigio con ripercussioni sul piano internazionale, ma soprattutto su quello economico, in termini di aumento del tasso di interessi e di mancati investimenti. E dotare semmai gli italiani di strumenti di tutela adeguati, ad  esempio la class action, e far pagare l’indebito a chi lo ha generato.

Per inciso, se ne parla sempre al plurale perché le tre grandi sorelle (S&P, Moody’s e Fitch) sono fatte della stessa “pasta”, ossia il capitale sociale è tra loro ripartito (in quote diverse) dai medesimi investitori. Anche questo sa tanto di conflitto di interessi.

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