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Oslo e Pechino litigano sull’Artico <br/>tra interessi economici e diritti umani

La Norvegia alza la voce ed è pronta a tenere fuori Pechino dal Consiglio Artico. La domanda cinese per un seggio da osservatore permanente nell’organismo, in cui si discute la gestione degli interessi economici ed energetici nella regione e la salvaguardia dell’ecosistema, potrebbe scontrarsi con la politica di chiusura verso il governo Oslo decisa dalla Cina in risposta all’assegnazione del premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo, a ottobre del 2010.

“Finché i cinesi si rifiuteranno di dialogare con la loro controparte norvegese sarà difficile dare il via libera alla loro candidatura”, ha detto un diplomatico, che ha preferito restare anonimo, al quotidiano Aftenposten. Parole su cui il governo di Oslo non ha rilasciato commenti, limitandosi a confermare per bocca di Karsten Klepsvik, capo del dipartimento per l’Artico del ministero degli Esteri, che le relazioni tra i due Paesi sono a livello molto basso e che nessuna decisione è ancora stata presa sulle domande di adesione. “Affronteremo la questione a breve”, ha aggiunto.

I tentativi norvegesi di riportare la situazione alla normalità per via diplomatica sono caduti nel vuoto. Nonostante Oslo abbia più volte rimarcato l’indipendenza dal governo del comitato per il Nobel, i cinesi, deplorando il conferimento del premio a quello che considerano un “criminale”, hanno tagliato ogni forma di dialogo e hanno scelto di colpire alcuni dei simboli del regno. È il caso del boicottaggio del salmone, attuato lo scorso settembre rafforzando i controlli sul pesce importato e di fatto lasciato marcire nei magazzini, mentre le vendite di salmone fresco norvegese oltre la Muraglia crollavano di oltre il 50 per cento.

E dire che appena due mesi prima dell’assegnazione del premio, ad agosto, il ministero degli Esteri, Jonas Gahr Støre, garantì il proprio sostengo alle ambizioni nordiche di Pechino, augurandosi che il Consiglio, fondato nel 1989, raggiungesse l’unanimità necessaria ad accogliere la domanda. La Cina non ha mai fatto mistero del proprio interesse sulla regione artica, dove dal 2004 ha una base di ricerca proprio in Norvegia e dove, secondo quanto riportato dalla Chinese Artic and Antartic Administration, ha già condotto quattro spedizioni. Pechino ha inoltre annunciato il varo entro il 2013 di una nuova nave spacca-ghiaccio da 8mila tonnellate che affiancherà la Xuelong, “il Dragone delle nevi” nelle tre spedizioni fissate entro il 2015. Lo scioglimento dei ghiacci, provocato dall’innalzamento della temperatura dovuto alla combustione degli idrocarburi, rende facilmente accessibili le risorse energetiche nascoste – si parla di giacimenti per 160 miliardi di barili – e modifica le rotte commerciali tra Atlantico e Pacifico.

A maggio gli otto Paesi membri del Consiglio (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Stati Uniti e Svezia) firmarono, per la prima volta nella storia, un trattato di cooperazione condiviso che riguarda la responsabilità delle ricerche e dei soccorsi aerei e marini e una mappa delle aree di competenza delle singole protezioni civili nazionali. Alla finestra, assieme alla Cina, ci sono tuttavia potenze emergenti, come India e Brasile, oltre all’Unione Europea, alla Corea del Sud e al Giappone, che contano in un seggio da osservatore permanente per cogliere l’opportunità della corsa all’Artico che potrebbe caratterizzare il XXI secolo. Ambizioni che trovano l’opposizione di Mosca e Ottawa contrari all’espansione dell’organizzazione. Di contro la Danimarca è diventata la testa di ponte cinese nell’estremo Nord.

Un rapporto del 2010 dello Stockholm International Peace Research Institute ha evidenziato come Pechino stia trattando la questione artica con molta cautela per non fomentare timori e reazioni, sebbene interventi come quello del professor Chen Baozhi sulla Beijing Review abbiano più volte contestato il monopolio sulla regione degli otto membri del Consiglio. “La Repubblica popolare ha legittimi interessi economici e scientifici nell’Artico”, ha detto l’ambasciatore danese a Pechino, Frijs Arne Peterson, lo scorso ottobre. “La diplomazia di Copenhagen sta seguendo il flusso dei soldi”, ha scritto invece Andrew Erickson professore all’U.S. Naval War College sul Wall Street Journal.

Nel 2010 le esportazioni danesi verso la Cina sono cresciute del 17 per cento e quelle cinesi in Danimarca del 25. Ma il vero premio per l’asse sino-danese saranno i giacimenti di minerali – uranio, terre rare, zinco e naturalmente petrolio, nei fondali della Groenlandia, semi indipendente dal 2009 ma la cui politica monetaria, estera e di sicurezza dipendono ancora dalla Danimarca. “Anche noi siamo interessati alla Cina”, ha sottolineato il primo ministro della Groenlandia, Kuupik Kleist, “Loro tuttavia devono capire che non possono decidere al posto dei residenti e gestire da soli le risorse”.

di Andrea Pira