Avevamo capito che il governo Monti fosse un governo “tecnico”. Cosa c’è di più tecnico degli studi della Banca d’Italia per farsi un’idea del paese e delle ricette economiche più giuste ed efficaci allo stesso tempo? E invece, a giudicare dalle reiterate manovre – prima casa, pensioni, liberalizzazioni limitate ai ceti medi, mercato del lavoro – sembra che quelle cifre e quegli studi i ministri e le ministre dell’autorevole professore nemmeno le leggano. Eppure quelle cifre sono impietose.

Dice la Banca d’Italia nel suo rapporto sui Bilanci delle famiglie italiane che “nel 2010 il reddito familiare medio annuo, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi sociali, è risultato pari a 32.714 euro, 2.726 euro al mese. Il reddito equivalente, una misura che tiene conto della dimensione e della composizione del nucleo familiare, si è attestato sui 18.914 mila euro per individuo, un valore inferiore, in termini reali, dello 0,6 per cento a quello osservato con l’indagine sul 2008“. Quindi, in soli due anni le famiglie italiane sono diventate un po’ più povere. A diventare più poveri sembrerebbero i redditi da lavoro indipendente: “Il reddito da lavoro dipendente ricevuto in media da ciascun percettore è risultato pari a 16.559 euro, pressoché lo stesso livello in termini reali rispetto al 2008 (-0,3 per cento). Quello da lavoro indipendente è risultato di 20.202 euro, con una diminuzione del 2,3 per cento”. Ma con i dati sull’evasione fiscale in Italia – il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, l’ha quantificata ieri a 120 miliardi di euro – il dato non è del tutto attendibile.

Resta che i poveri, da lavoro, aumentano. La loro quota – convenzionalmente identificata in redditi inferiori alle metà mediana – è risultata pari al 14,4 per cento, un punto in più rispetto al 2008. “Nel 2010 – continua ancora Bankitalia – il 29,8 per cento delle famiglie reputava le proprie entrate insufficienti a coprire le spese, il 10,5 per cento le reputava più che sufficienti, mentre il restante 59,7 per cento segnalava una situazione intermedia. Rispetto alle precedenti rilevazioni emerge una tendenza all’aumento dei giudizi di difficoltà”.

Ma i dati sulla povertà delle famiglie sono significativi se raffrontati alla distribuzione complessiva della ricchezza. “La ricchezza familiare netta – è ancora la Banca d’Italia a parlare –  data dalla somma delle attività reali (immobili, aziende e oggetti di valore) e delle attività finanziarie (depositi, titoli di Stato, azioni, ecc.) al netto delle passività finanziarie (mutui e altri debiti), presenta un valore mediano di 163.875 euro. Il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede il 45,9 per cento della ricchezza netta familiare totale (44,3 per cento nel 2008). La concentrazione della ricchezza, misurata in base all’indice di Gini, è risultata pari a 0,62, in lieve aumento rispetto alla precedente rilevazione del 2008 (0,61)”. Il punto continua a essere rappresentato da questa distribuzione ineguale delle risorse su cui nessun governo al mondo ha finora avanzato proposte decenti.

La stessa analisi è stata fatta qualche giorno fa dall’Ocse nel suo rapporto “Divided we stand” reso pubblico alla presenza della ministra Elsa Fornero (presso l’Istat dove ai precari che la contestavano la ministra non ha potuto dedicare neanche una risposta). In quel rapporto si legge che “la disuguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa è aumentata drasticamente nei primi anni Novanta e da allora è rimasta a un livello elevato, nonostante un leggero calo verso la fine del primo decennio degli anni duemila. La disuguaglianza dei redditi in Italia è superiore alla media dei Paesi Ocse, più elevata che in Spagna ma inferiore che in Portogallo e nel Regno Unito”. E ancora: “Nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era di 49.300 euro, dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero (4.877 euro) indicando un aumento della disuguaglianza rispetto al rapporto di 8 a 1 di metà degli anni Ottanta”.

Cosa ha contribuito ad aumentare questo scarto? Attenzione: “Le aliquote marginali dell’imposta sui redditi più alti si sono quasi dimezzate passando dal 72% nel 1981 al 43% nel 2010″. Oltre all’evasione fiscale si è assistito in Italia a una progressiva diminuzione della pressione fiscale sui redditi finanziaria e societari che ha avuto un impatto, mai preso in considerazione, sull’evoluzione del debito pubblico. Un impatto riscontrabile anche su scala europea. Si guardino questi cifre offerte da Eurostat: dal 2000 al 2010 la pressione fiscale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento. Se la pressione complessiva in Italia è rimasta più o meno stabile, riducendosi solo dello 0,3 per cento in dieci anni – ma compensata da un’evasione fiscale gigantesca – quella sui redditi delle società è passata dal 41,3 per cento al 31,4 con una riduzione del 9,9 per cento.

La pressione fiscale è rimasta invariata, o è aumentata, solo sui redditi da lavoro dipendente o da pensione: l’88 per cento dei contribuenti italiani è infatti composto da lavoratori dipendenti e pensionati e il gettito fiscale che producono è pari al 93 per cento delle entrate. Tutti gli altri pagano solo il 7 per cento. Un vero tecnico partirebbe da questi dati.

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