Scrivo questo post mentre ‘sorveglio’ trentuno dottori in Beni culturali e Lettere, intenti alla prova scritta del concorso per accedere ad un Dottorato di ricerca in Archeologia e Storia dell’arte.

Hanno le facce serie e appassionate di chi ha deciso di provare a dedicare la propria vita allo studio e alla ricerca nelle scienze umane: quelle scienze che, in ultima analisi, hanno il fine di aumentare il tasso di umanità e civiltà della nostra società, la quale ne ha evidentemente un gran bisogno. Ma – che vincano questo concorso, o che lo perdano – lo Stato italiano non li tratterà né con umanità, né con civiltà.

In palio ci sono tre posti con borsa di studio, e tre senza. Quest’ultimo, assurdo istituto è un pessimo viatico per il senso stesso del dottorato: perché alimenta l’idea che la formazione superiore sia un lusso per le classi agiate. E legittima la deriva per cui quella formazione non è un investimento dello Stato, che dovrebbe poi metterlo a frutto assumendo i dottori di ricerca nei propri ranghi, ma un capriccio per ricchi, perfetta premessa per una disoccupazione perpetua.

In questo primo mese di vita del blog, i miei interlocutori più accesamente critici sono stati due laureati in Beni culturali che stanno sperimentando sulla loro pelle tutto questo, e che sono – chi non lo sarebbe –  arrabbiati e disillusi.

Il nostro disaccordo è solo su un punto. Io sono convinto che la mutazione genetica della storia dell’arte universitaria da disciplina umanistica a materia ancillare nella ‘formazione’ di ‘operatori dei beni culturali’ sia un passaggio decisivo nel processo di delegittimazione sociale e professionale degli storici dell’arte (inclusi quelli laureati in Beni culturali). I miei interlocutori temono che questa critica radicale abbassi ancor più il valore del loro titolo di studio, e comprometta ancor di più la loro vita professionale. Si tratta di un nodo importante, che vorrei affrontare in futuro.

Qui vorrei dire senza equivoci che essi hanno perfettamente ragione sulla questione fondamentale: è scandaloso che lo Stato italiano e gli enti locali non tengano in alcun conto le lauree in  Beni culturali, che (giuste o sbagliate) sono attualmente la via maestra per la formazione di coloro che dovrebbero tutelare e far conoscere il patrimonio storico e artistico della nazione. Si tratta di una specie di abolizione di fatto del valore legale dei titoli di studio: ma non compensata da nessun accertamento reale delle competenze, che diventerebbe fondamentale a fronte di un’abolizione come questa (di cui proprio ora si torna a discutere).

Lo ha scritto benissimo Laura Cavazzini: «L’impressione sconfortante è anzi che tra il mondo della formazione universitaria e quello del lavoro sia mancato negli ultimi vent’anni qualunque tipo di comunicazione. Vent’anni durante i quali abbiamo continuato a promettere – mettendolo nero su bianco nei nostri manifesti degli studi – sbocchi professionali che in realtà non esistono, dato che una laurea in Filosofia morale serve per un concorso ministeriale quanto una in Beni Culturali» (tutto l’intervento, che significativamente si chiama: “Titoli senza sbocchi, sbocchi senza titolo”). L’Associazione Bianchi Bandinelli sta promuovendo un’iniziativa dal titolo analogo (“L’Italia dei Beni Culturali: formazione senza lavoro e lavoro senza formazione”) che nei prossimi mesi potrebbe fornire un quadro prezioso della situazione (specie se si supererà lo stucchevole maternalismo che ne ha caratterizzato l’avvio-).

Nel frattempo, però, si va di male in peggio. Lunedì prossimo scadono i termini per concorrere ad un posto di dirigente del Comune di Roma per i Beni culturali e ambientali. Lo stesso giorno scade un bando dello stesso comune per un posto di Avvocato dirigente: per cui si richiede la laurea ‘vecchio ordinamento’ o quella magistrale in Giurisprudenza e l’Esame di Stato per l’avvocatura. Per chi avrà, invece, l’immane responsabilità dello sterminato e cruciale patrimonio di Roma capitale basta anche una laurea triennale in «discipline umanistiche, letterarie o ambientali». E l’eventuale laureato in Letteratura contemporanea giapponese o in Linguistica computazionale non deve certo agitarsi: all’orale gli si faranno domande di storia medievale e moderna (ma non di quella antica, notoriamente irrilevante pr Roma), mentre della storia dell’arte basterà che conosca qualche «elemento».

Il sindaco Alemanno si straccia le vesti perché ancora non è partito il noleggio del Colosseo a Diego Della Valle: chissà se qualcuno gli ha spiegato che se assumesse in quel ruolo un vero storico dell’arte (invece che il prevedibile raccomandato incompetente) farebbe qualcosa di infinitamente più importante. Oltre che di più giusto.

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