No ai combustibili fossili, no al nucleare. No a nuove autostrade, no alla Tav. No agli inceneritori, no alle discariche. No all’eolico, alle biomasse, al fotovoltaico a terra. No alla caccia, no agli allevamenti intensivi.
L’accusa più comune mossa contro gli ambientalisti è di essere contrari a tutto e di non rendersi conto che il benessere quotidiano può esistere solo se esistono anche sacrifici in termini ambientali: anche un computer acceso, da qualche parte, inquina. Per dirla in altro modo, gli ambientalisti sono disfattisti: tante parole, nessuna alternativa. Ma chi non è disfattista, quali parole usa? Me ne vengono in mente tre che sono utilizzate in continuazione da politici, economisti, imprenditori, professori e opinionisti: crescita, sviluppo, progresso. Queste parole sono onnipresenti in qualsiasi proclama elettorale, e tutt’ora con il persistere della crisi continuano a essere un miraggio auspicato dai più. Tre parole che, proprio per l’abuso che ne è stato fatto, spesso sono vuotate del loro significato, distaccandosi sempre di più dalla realtà quotidiana, quella che negli appelli si dice di voler difendere.
La crescita non è altro che un lento suicidio, come dimostrato dal (parziale?) crollo del sistema industriale nazionale. Produrre “più dell’anno precedente” per non fallire. La finanza ha completamente divorato l’economia, tanto che chi oggi si appella al “buon senso” non è che un eretico, di fronte alla complessità dei calcoli che indicano la strada della sopravvivenza per un’azienda. Eppure un essere umano ha bisogno ogni giorno dello stesso numero di calorie per sopravvivere; l’economia che abbiamo creato, invece, non è mai sufficiente a sé stessa. Qualcosa non torna, lo capirebbe anche un bambino, e non a caso serve almeno una laurea per sostenere il contrario.
Lo sviluppo ci dice che abbiamo bisogno di nuove strade, di nuovi ponti, di nuove grandi opere. Come abbiamo fatto, fino ad oggi, a sopravvivere senza? La via dei grandi investimenti pubblici per contrastare la crisi è stata perseguita nel 1929; a 80 anni di distanza forse sarebbe il caso di valutare l’anacronismo di certi appelli che pensano al Pil di oggi, ma non alle conseguenze di domani: siamo o non siamo il Paese che sette miliardi di persone vogliono visitare? Non credo che dall’estremo Oriente vengano in Italia per vedere le nostre autostrade, anche perché probabilmente le sanno fare meglio di noi. Nella peggiore delle ipotesi una nuova strada serve a spostare il traffico, in quella più plausibile serve a incrementarlo. Eppure l’Europa, con la strategia 20-20-20, pone la riduzione delle emissioni come obiettivo di primaria importanza. Parole al vento, evidentemente (quale coerenza, visto che è proprio il vento oggi l’unica arma contro lo smog nella stagnante pianura Padana).
Al progresso, infine, non resta che somigliare a una presa in giro. Non servono a nulla l’abitazione passiva, la sportina biodegradabile, l’auto ibrida e il pannello solare se questi strumenti continuano a essere nient’altro che una scusa per la crescita, per cadere nuovamente in una spirale autodistruttiva.
La geografia che si studia alle scuole elementari insegna che ogni territorio ha una sua vocazione. E prima o poi anche chi combatte il “disfattismo” dovrà farsene una ragione. Il fotovoltaico sarà nei deserti, l’energia verrà dal mare e dai fiumi molto più di quanto non avvenga oggi. Riqualificare sarà obbligatorio, costruire sarà proibito. Questa è crescita. Le bonifiche cancelleranno i segni delle speculazioni incapaci di produrre ricchezza senza creare debito pubblico, perché l’Italia dovrà tornare prima di tutto bella per continuare a sedurre il mondo e trarre profitto da quelle miniere d’oro chiamate turismo e cultura. Questo è sviluppo. Le discariche non serviranno, perché tutti i materiali non riciclabili verranno depennati dal ciclo produttivo. Le centrali a biomasse spariranno perché la produzione di cibo tornerà a essere un investimento più conveniente. I tir non dovranno trasportare l’insalata da Bari a Milano, perché la verdura può coltivarla anche il vicino di casa. Questo è progresso. Ma tornando al valore delle parole, queste si chiamano ancora utopie.