Lungo omaggio a Luigi Ontani. Arte Fiera Art First 2012 dedica per il terzo anno un’intera serata all’opera di un artista di portata internazionale. Ecco allora interloquire con Ontani, in un dialogo dotto e scherzoso, il curatore e critico Renato Barilli, che ne ripercorre la carriera con immagini e video che scorrono le sue performances su maxi-schermo, dagli anni Sessanta a oggi. Ontani, in un completo di raso indiano color magenta, segue e corregge divertito l’omaggio al suo narcisismo riconosciuto e fantasioso. Dai dipinti-citazione dei pittori eletti a pantheon d’ispirazione, alle ceramiche fino ai tableaux vivants e le sue celebri maschere all’insegna della poetica dell’evasione.
Nella Biblioteca Sala Borsa, la Sala Enzo Biagi e la Piazza coperta sono riempite di gente, venute a godere delle particolarissime suggestioni dell’artista performer e della manifestazione artistica che sta animando la città in questi giorni. Dopo Bill Viola nel 2010 e “Lady Performance” Marina Abramovic nel 2011, quest’anno si è celebrato il ritorno di Ontani ad Arte Fiera: già nel ‘77, l’artista, nei panni di un pastore arcadico, con il tipico ricorso alle figure mitologiche e l’ausilio della proiezione di diapositive, aveva eseguito Il sonno di Endimione, nel vasto salone della GAM, allora contigua agli edifici della Fiera.
Quest’anno, la proiezione del curriculum artistico serve da spunto per tenere una vera e propria lezione d’arte contemporanea, a cui l’ex direttore del Dipartimento delle Arti Visive dell’Università di Bologna ammette di non potersi sottrarre concedendo spunti per gli interventi brillanti dell’artista, che spesso e volentieri corregge l’amico e professore, precisa, e si racconta con il suo mirabolante utilizzo dei termini.
Un artista che travalica i confini, riproponendo in maniera capricciosa il diritto naturale dell’arte, di evadere e dell’artista di rompere gli schemi.
Ad assistere, anche Lucio Dalla, amici da quarant’anni e figli della stessa terra: “Ontani è un artista anomalo. È stato subito unico da quando ha iniziato. È uscito dai nostri confini. In un momento di finta estroversione lui rimane a garanzia del modo di intendere l’arte in maniera unica, rispetto alla retorica diffusa della sperimentazione e dell’arte contemporanea. È antico e nello stesso tempo ultra moderno”.
La sfilata d’immagini inizia con gli oggetti pleonastici, “le buone cose di cattivo gusto”: oggetti domestici accesi di colorismo kitsch che li sottrae al rigore dell’Arte Povera in cui Ontani si forma e da cui inizia la prima delle sue infinite evasioni: “Ontani è l’artista dell’alibi, della fuga nell’altrove”. È sempre qui che comincia “il ribaltone” artistico del ‘68: sfodera concetti, foto, parole e colori che divengono gli utensili dell’arte concettuale, spesso anticipando l’uso di tecniche in seguito adottate da altri artisti negli anni ‘80, tra cui i primi video super 8 in bianco e nero e la body art che proprio nella Abramovic troverà analoga espressione. “Era un momento di design straordinario, quindi tentai di esprimere qualcosa che mi poneva in una posizione che mi poteva portare a giocare con me stesso e con l’ambiente che stavo vivendo. Con tutto il rispetto e il dispetto per l’Arte povera”, scherza l’artista. Nelle immagini, ricorre sempre lui, “un lui evasivo che non si accontenta dei panni quotidiani”, precisa Barilli.
Da qui inizia a vestirsi di abiti fatti di oggetti: coperto di tegole come un “Tetto” comincia a confezionarsi abiti e riplasmare il mondo che lo circonda, fino ad arrivare a quelle fotografie-dipinti lo ritraggono rigorosamente in prima persona, utilizzando come media il proprio corpo per dare volto e riletture a temi storici, mitologici e popolari, “facendo rinascere le forme di celebri dipinti del passato, o di condizioni rituali, da museo antropologico”. Fin da “Teofania” nel 1969, che “fu un tentativo di liquidazione di un’educazione religiosa per riscattarla in una dimensione mistica, secondo il desiderio di tendere già a un altrove”, fino a denudarsi completamente perché “gli abiti borghesi non li porterò più”. Il suo “San Sebastiano” è solo uno degli omaggi che Ontani fa a quello che lui chiama il “ritornello” di Guido Reni.
Ma l’ex amministratore di azienda, che nel dopolavoro si fiondava con la sua cinquecento a palazzo Bentivoglio, o ai giardini Margherita con la sorella per realizzare le Belle statuine sulla falsa riga di quello che più avanti ritroverò nella posa. Iniziano così i suoi tableau vivant – quadri viventi appunto, composti di attori in costume e immobili con epicentro Ontani. Da qui, si arriverà a vere e proprie regie delle sue “performance vestite”, in cui l’artista si cala in panni propri in situazioni lontane, dimostrando una capacità illimitata di insinuarsi in mille guise diverse, che lo vedranno girare da New York a Bali, passando per il Messico e il Vecchio Continente. Affascinato dalla “leziosità e forza” del taj-box, il re del paradosso compone i suoi video nelle musiche e nelle gesta del mondo orientale e dei suo combattimento, che da “vegetariano e pacifista”, non ha lasciato che avvenisse. E sempre a Bali commissiona le sue maschere “perché li ignorano la differenza fra l’arte e i prodotti manuali, e il gesto è naturalmente raffinato”. Maschere di estrema eleganza nei loro colori sgargianti, con cui fa un “uso ostensorio di se stesso” e con cui non ha mancato di concludere la serata in una breve performance per il pubblico di giovani che l’ha seguito dalla piazza coperta fino a mezzanotte.
Come si sente in questo ritorno a Bologna, proprio per Arte fiera?
“Vivere un eterno ritorno. In Inferi. (ride) Vivendo d’arte, ritrovo un sentimento e un concetto. Ed è questo ritorno che tento di riuscire a comunicare non solo con le immagini ma anche con le parole consapevole che non ho poi tutta questa disinvoltura”
Paradossalmente timido?
“Questa è forse una questione di carattere, di personalità che viene portata non sulle nuvole ma sugli strumenti”
Evadere per cercare o evadere per fuggire?
“Ho fatto molte opere e operette su questo tema, come “un vaso-evaso”. Penso che l’avventura condotta da un viaggio nel tempo e nella voglia dell’arte, ritrovata attraverso le debolezze della mia vita, più che un’evasione sia una concentrazione e anche una distrazione. E quindi questo gioco è un gioco che continua, che vivo non solo sulla mia pelle ma anche in carne ed ossa. Simulacro di me stesso come dimensione improbabile dell’apparizione con le sue contraddizioni”.
Cosa permette l’utilizzo del corpo, di se stessi, rispetto ad altri strumenti?
“Nonostante tutta la maniera e la finzione, o la convinzione, io ho sempre accettato la mia possibilità di essere senza manipolare nulla, quindi nella semplice naturalità della mia propria artificiosità”.