La data è fissata: il 31 marzo 2013 gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) saranno chiusi. Il Senato ha già dato il suo via libera. Ora la parola passa alla Camera dei Deputati.
Poco più di 1400 sono le persone rinchiuse nei sei Opg (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Napoli e Reggio Emilia), di cui 446 quelle che potrebbero uscire immediatamente. Sono ancora dentro perché ritenute socialmente pericolose. Anche se, in effetti, restano in carcere perché non c’è nessuno che li accolga all’esterno, né i familiari, né le strutture pubbliche.
Siamo andati a visitare l’Opg di Aversa, quello che molti politici, dopo averlo visitato, non hanno esitato a definire lager. Ci si arriva inoltrandosi nel cuore della città, lungo via San Francesco. Ci si imbatte subito in mura spesse e alte. Nelle torrette lungo il perimetro di cinta non ci sono più guardie armate, ma la struttura incute sempre timore. Il “Filippo Saporito” di Aversa è tra i “manicomi criminali” più grandi d’Europa. Costruito al centro della città nel 1876 fu destinato ad ospitare i “folli rei”, i matti che commettevano un delitto, e i “rei folli”, quelli che invece impazzivano in carcere.
Da qui sono passati tanti poveri cristi e molti ci sono morti. Soprattutto quando in psichiatria dominava il punto di vista di Cesare Lombroso, un medico e criminologo, sostenitore di una teoria secondo la quale l’origine del comportamento criminale è nelle caratteristiche anatomiche delle persone. Una teoria che oggi può apparire bizzarra, ma che fino ad una quarantina di anni fa ha contribuito a distruggere tante vite. Reperti umani si trovano ancora nel Museo del “Filippo Saporito”, ben conservati in contenitori di vetro.
“Nell’Opg di Aversa attualmente vi sono ospitate 190 persone – spiega la direttrice, Carlotta Giaquinto – sono diminuiti di un centinaio di unità perché abbiamo chiuso un reparto, “la staccata”, uno dei padiglioni più vecchi che ha bisogno di essere ristrutturato”.
“La staccata” è situata al centro dell’Opg (otto padiglioni in tutto) e fino agli inizi degli anni ’80, quando il manicomio ospitava un migliaio di persone, era il luogo di punizione dove venivano rinchiusi i casi più gravi. Era come l’inferno in terra. Una specie di buco nero dove si nascondevano le paure e le fobie della società. Qui tra violenze, elettroshock e letti di contenzione, avveniva la mortificazione dei diritti più elementari delle persone. Un mostruoso lager.
Nei primi anni ’70 uno degli internati, Aldo Trivini, riuscì a documentare con una telecamera nascosta gli orrori che si consumavano in questo reparto. I gruppi armati dell’ultrasinistra tentarono, a modo loro, di portare a conoscenza dell’opinione pubblica, ciò che accadeva ad Aversa. Soffiarono sulla disperazione che si viveva nell’ Opg, cercando di fomentare una rivolta all’interno del carcere. La notte del 30 maggio 1975, un giovane militante dei Nuclei Armati Proletari, Giovanni Taras, sale sul tetto del manicomio criminale, arrampicandosi attraverso uno stabile abbandonato. L’obiettivo è diffondere un messaggio registrato di solidarietà con gli internati e contro la gestione dell’Opg. Al termine del messaggio doveva anche scoppiare un ordigno collegato al registratore. Ma l’ordigno esplode nelle mani del militante dei Nap mentre lo sta collocando sul tetto. Taras è investito dallo scoppio e muore. Il cadavere verrà scoperto il mattino seguente al cambio del turno delle guardie carcerarie. L’azione dimostrativa viene rivendicata dal Nucleo Armato “Sergio Romeo”.
Intanto il filmato Trivini, finisce in mano al pretore di Aversa. In tutto sono 56 pagine dattiloscritte in cui Trivini descrive la vita all’interno della struttura manicomiale e allega le testimonianze di altri sei internati o ex internati del manicomio aversano. Si apre un processo al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Finisce con le condanne del direttore dell’Opg, Domenico Ragozzino e di due guardie carcerarie. Il direttore poi si impiccò. Il processo contribuì a far aprire un dibattito sui manicomi criminali.
Si scoprì che i finti matti e i simulatori, molti dei quali boss della camorra e criminali incalliti, attraverso perizie psichiatriche compiacenti, finivano nel manicomio per evitare il carcere. Un paio di anni e poi uscivano. E a differenza dei poveri cristi, avevano stanze più accoglienti che qualcuno le rendeva confortevoli, con mobili fatti entrare con autorizzazioni speciali. C’era anche chi decideva di uscire prima, come il boss Raffaele Cutolo, che da Aversa evase il pomeriggio del cinque febbraio del 1978. Quel giorno Cutolo raccolse le sue cose nella cella ammobiliata e con moquette colorata, proprio mentre una bomba apriva uno squarcio di una diecina di metri nel muro di cinta. Con tutta calma il boss della Nuova Camorra Organizzata uscì dalla sua stanza, fece pochi passi, attraversò le piccole macerie e si ritrovò fuori dal carcere, alle spalle del seminario vescovile della città. Qui lo attendevano, con un’auto già pronta per scappare, sua sorella Rosetta con i due luogotenenti, Corrado Iacolare e Vincenzo Casillo.
“Altri tempi – dice la direttrice – oggi i camorristi qui non entrano. Gli ospiti li teniamo in sette padiglioni e i più gravi sono distribuiti un po’ ovunque, per evitare proprio che si creino reparti ghetto. Nella gestione prevale sempre l’aspetto sanitario”. Ma qui si continua a morire. Suicidi. “Gli ultimi, tre, purtroppo, all’inizio del 2011 – spiega la direttrice Giaquinto che è ad Aversa dal 2008 – Si tenga presente che le persone rinchiuse sono affette da patologie psichiatriche, più o meno gravi, e alcune patologie portano a questo tipo di conclusione. C’è anche da considerare che ci sono episodi emulativi. In ogni caso nella struttura c’è un’attenzione massima, perché abbiamo i riflettori puntati da parte delle commissioni parlamentari, ma anche da parte del tribunale di Santa Maria Capua Vetere e, soprattutto, dai mass media“.
La maggior parte delle persone che si trovano nell’Opg di Aversa hanno commesso piccoli reati: maltrattamenti violenti, estorsioni in famiglia, violenza a pubblico ufficiale. C’è anche qualche criminale seriale, ma pochi. “I soggetti che arrivano qui – afferma ancora la direttrice dell’OPG – hanno commesso un reato anche banale. Il reato, ovviamente, è collegato al tipo di patologia, ma che ripetuto in un contesto sociale e familiare, dà luogo a denuncia penale. Arrivano da noi con una misura temporanea di sicurezza che ha una durata minima di sei mesi, ma che in teoria può anche non finire mai. Le famiglie all’esterno non rivogliono indietro i loro familiari e non c’è alcuna struttura che li accoglie. Capita che il magistrato debba prorogare la misura in attesa che il Dipartimento di Salute mentale faccia un programma per accogliere la persona in altra struttura. Attualmente sono circa quaranta le persone che pur essendo libere per aver scontato la pena, restano ancora qui rinchiuse“. Ergastolani, loro malgrado, ma che potrebbero uscire presto per ritornare ad una vita più dignitosa.