Giovedì sera un operaio ospite di Servizio Pubblico si è confrontato animatamente con Roberto Castelli (Lega Nord) durante la diretta. Le ragioni del primo erano difficilmente contestabili, la difficoltà del secondo a reggere il confronto erano evidenti. Eppure non si parla più, e solo, di questo. Si parla dell’operaio che ha mandato a quel paese l’ex ministro. E del politico che ha abbandonato lo studio dopo aver ricevuto un ‘non mi rompere i coglioni’ come risposta all’ennesima provocazione da parte del suo interlocutore.
Quello sfogo liberatorio, che ha fatto esplodere gli altri operai in collegamento, in un fragoroso applauso, è secondo me un errore. Un errore di comunicazione. L’insofferenza degli italiani contro la classe politica è legittima e largamente comprensibile. Ma questo non autorizza reazioni di qualsiasi tipologia.
Si potrà obiettare che non è che in questi anni un atteggiamento più dialogante abbia portato a qualcosa. È vero, ma l’insulto è un alibi per l’insultato. E chi protesta ha così tanta ragione che non si può permettere il lusso di offrire alibi a nessuno.
Si potrà allo stesso modo dire che un operaio ha diritto a insultare un politico che lo tratta male, nei fatti e nelle parole. Il diritto è sacrosanto, ma quando un operaio è in televisione e ha tutto quello spazio non rappresenta solo se stesso, ma milioni di lavoratori. Così come Castelli è simbolo della politica nel suo complesso, l’operaio di Servizio Pubblico ha rappresentato la sua categoria. Ecco perché chi va in televisione non può limitarsi a dire ciò che pensa e non può pensare di parlare a titolo personale. Piuttosto si deve preparare al confronto con persone di tutti i tipi, compresi soggetti che non godono della propria stima, e deve trarre il miglior risultato possibile per la categoria che rappresenta. In questo caso l’operaio ha mandato a quel paese la politica: avevamo davvero bisogno della televisione per farlo? Era l’unica, la migliore opzione possibile?
Si potrà sostenere che Castelli e la Lega hanno usato un linguaggio e un codice politico insultante in questi anni. E che i politici si mandano spesso al diavolo tra loro in televisione, dunque è legittimo che un operaio lo faccia con un politico. Accettare questo vuol dire sostenere, implicitamente, che a comportamento scorretto corrisponde uguale comportamento come risposta. E che dunque si è uguali (almeno nei comportamenti pubblici) a chi si vuole contestare. Questo riduce, e di molto, il potenziale morale della protesta contro la classe politica.
Si potrà, infine, dire che un’offesa è comunque oro rispetto a ciò che potrebbe succedere se ci dovesse essere un’escalation di tensione e di incomunicabilità tra governati e governati. Se il ragionamento fosse questo si inizia ad avallare l’idea che il fine giustifica (tutti) i mezzi. Una strategia che, a grandi linee, è quella adottata dalla tanto odiata politica per tenere in piedi governi, alleanze, potentati. Anche in questo caso, lo sfogo azzera la distanza tra chi protesta e chi l’ha causato, tra torti e ragioni, tra operaio e politico.
Protestare, essere opposizione sociale, è un’arte nobile, prestigiosa e delicata. Anche l’opposizione ha bisogno di leader preparati. La comunicazione è una variabile troppo importante per poter essere snobbata. Quando si parla della vita delle persone, chi ci rappresenta in televisione deve avere la lucidità di parlare per difendere i nostri interessi. Altrimenti ha sfruttato una platea per motivi personali. La stessa accusa che da anni gli italiani fanno ai politici.
Una buona frase che un operaio avrebbe potuto dire a Castelli? “Caro Castelli, dirò a tutti i miei amici operai del Nord di non votare più Lega Nord. Voi avete tradito tutta quella gente e saranno loro a mandarvi a casa non votandovi alle prossime elezioni”.
Forse non fa ascolti, ma fa più male.