Cultura

Rivive la nave “Kater I Rades”, da relitto
di una tragedia a opera all’umanità migrante

La motovedetta albanese fu speronata il 28 marzo del 1997 da un'imbarcazione della Marina militare italiana. Morirono 81 persone, 24 non furono mai ritrovate. Ora lo scultore greco Costas Varotsos, l'ha trasformata in un monumento a coloro che ancora continuano a viaggiare

di Tiziana Colluto
La nave Kater I Rades trasformata in monumento all'umanità migrante

La notte del Venerdì santo del 1997 la Kater I Rades, la motovedetta albanese, entrò in collisione con una nave della Marina militare italiana. Nel Canale d’Otranto morirono 81 persone. Oggi quel relitto, destinato alla demolizione, è diventato un’opera d’arte, un omaggio ai vecchi e nuovi migranti

“Volevo farla rinavigare, volevo farla ripartire. E’come se si trovasse in mezzo a una tempesta e tutto il mare gli fosse scoppiato addosso. Ho cercato di farla riemergere in superficie, quello che si era inabissato doveva tornare a cavalcare le onde, con un nuovo messaggio di equilibrio tra presente e passato”. Qui, sulla banchina del porto di Otranto, quella notte se la ricordano tutti. Se la ricorda anche chi non c’era. Costas Varotsos, lo scultore venuto dalla Grecia e che da due mesi plasma vetro e ruggine, ha appena posato gli attrezzi da lavoro. La Kater I Rades è pronta per l’inaugurazione. “Che fatica tagliare in due la chiglia. È stato lo scoglio più duro. È lì, nella pancia di questa imbarcazione, che sono stati ritrovati i 57 morti”.

La ferita è ancora aperta su tutte e due le sponde del Canale d’Otranto. Da una parte quella del lutto, dall’altra quella della colpa, entrambe ancora da rimarginare. Quando quella sera del 28 marzo del ’97, in acque internazionali, la Kater I Rades, la motovedetta albanese, entrò in collisione o, meglio, venne speronata dalla Sibilla, una corvetta della Marina militare italiana, l’urto fu violentissimo. Le donne e i bambini erano corsi giù, in quello che doveva essere il riparo più sicuro, ma che divenne una trappola. 24 corpi non sono mai stati ritrovati. Ma i superstiti, 34, ne ricordano i volti, i nomi, hanno memoria lunga, raccontano quegli attimi, quella paura. Lo fanno su questo molo, dove sono arrivati per l’occasione. Lo hanno fatto nelle aule di tribunale, a Lecce, dove sono venuti ogni volta che si è tenuta un’udienza del lungo processo che si è chiuso tra la loro rabbia e la loro indignazione. Il 29 giugno 2011, alle due del mattino, la sentenza in secondo grado ha condannato a tre anni il pilota albanese della nave, Namik Xhaferi, e a due anni il comandante della Sibilla, Fabrizio Laudadio, per omicidio colposo, reato derubricato per lesioni colpose. In dibattimento, dalla pubblica accusa era stato anche chiesto che la Marina militare e lo Stato italiano fossero assolti perché “incolpevoli dello speronamento della nave albanese”. Una strage, per chi l’ha vissuta, per cui nessuno sta pagando abbastanza.

Anche questa è la storia del “Battello di rada” partito da una Valona in piena guerra civile . Il relitto, abbandonato per anni nel porto di Brindisi, doveva essere demolito. Lo aveva disposto la Corte d’Appello di Lecce, nella scorsa primavera. È stato il Comune di Otranto, su spinta dell’associazione Integra Onlus, a bloccarne lo smantellamento. “Per noi sarebbe stata un’offesa a tutto quello che siamo stati. Recuperare quel relitto, trasformarlo in opera d’arte, non è semplicemente un modo per chiedere scusa agli albanesi. È anche un esercizio di memoria per noi. Dopo quella tragedia, lo Stato italiano ha capito che non potevamo più continuare con i respingimenti in mare, sono stati uno strazio. Una nave in mare aperto la si accoglie, in ogni caso. E il nostro porto è tuttora aperto a questo”.

Luciano Cariddi, che ha voluto l’opera, è anche il sindaco che a Otranto ha riaperto il “Don Tonino Bello”, il centro di primissima accoglienza per gli immigrati. Era chiuso da cinque anni. Dal luglio del 2010 non ha più smesso di funzionare. Prima c’erano gli albanesi, ora ci sono gli afghani, gli egiziani, gli iracheni. “Gente in fuga, a cui abbiamo l’obbligo e la voglia di dare pace. È per loro – ribadisce Cariddi – che la Kater è diventata il monumento all’umanità migrante, ‘L’Approdo’”.

È qui l’altra Lampedusa. Su questa banchina. La nuova porta dell’Europa ha la forma della prua recuperata e il colore del vetro che è stato lavorato. “Materiale trasparente, che ti obbliga a guardare al di là, non pellicola di separazione – precisa lo scultore greco – perché questo Adriatico torni ad essere fluido, via di comunicazione e non frontiera”. La Kater I Rades è il simbolo dell’Europa di oggi che sta per implodere. “Anche la mia Grecia e anche la nostra Italia si trovano in mezzo alla tempesta, come lo è stata quest’imbarcazione quella notte del ’97. Forse quella tragedia voleva avvertici della deviazione degli obiettivi dell’Europa unita. Non abbiamo saputo virare per tempo. E ora da qui suoniamo l’allarme contro la xenofobia che è tornata a dilagare per le nostre strade”. Così dice Varotsos, che al suo fianco ha voluto ci fosse anche un gruppo di ragazzi della Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Sono venuti da Egitto, Siria, Cipro, Albania, Montenegro, Francia e ci saranno anche loro nella “residenza internazionale per il contemporaneo e le migrazioni”. Quest’opera collettiva è l’incipit di quest’altro racconto, di quest’altro capitolo che si aggiunge alla storia della Kater I Rades e degli sbarchi sulle coste salentine e italiane. Il lutto e la colpa non si cancellano, ma si rielaborano, come nei funerali, in Grecia, quando la gente si saluta e dice “Vita a voi”. Ecco, Otranto oggi agli albanesi e ai nuovi migranti vuole dire proprio questo, “Vita a voi”.

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