Ieri ho visto il film Acab, ed ero allo stadio per Roma-Bologna. Le due cose andavano fatte insieme, e in ordine inverso, per capire meglio le reazioni sull’uscita di questo film (nelle sale da venerdì scorso). Reazioni che ho cercato di captare soprattutto la sera al cinema, fuori, in strada.
Zona Prati, prima serata, sala piena. E piena solo di ragazzi, quasi tutti curvaioli, romani, diverse donne che li accompagnavano. Dunque, prima l’antefatto. Allo stadio, in curva sud, a metà partita (partita di una noia mostruosa, con interviste post-gara ancora più noiose, uno di quei pomeriggi che ti chiedi perché stai facendo quel lavoro, e metti in discussione tutta la tua vita), dicevo: inizio secondo tempo, appare uno striscione, contro il film Acab. Ricordava le morti, in circostanze controverse, dei tre ragazzi: Aldrovandi, Cucchi e Sandri. Faceva così: “Federico, Stefano, Gabriele… Acab non è un film”. Guardo il film, e inizio a farmi delle domande.
Intanto, è necessario fare una distinzione tra film e libro. Perché il tutto nasce dal romanzo di Carlo Bonini, edito per Einaudi, in cui il giornalista racconta la sua esperienza passata con i celerini, ed entra nei dettagli dei loro racconti, facendo vivere al lettore in prima persona ogni traccia di violenza, o di vendetta, che usciva dalle loro parole. Però, beh, ecco, il libro non ha la potenza delle immagini, e quindi fa venire la stessa rabbia, la stessa insicurezza, la stessa insofferenza che scatta guardando il film.
Lo stesso Bonini, racconta: “Quando ho incontrato di persona i tre protagonisti del mio libro, mi ricordo di aver dovuto compiere sulla mia pelle un’operazione difficilissima, perché c’erano degli aspetti dei loro racconti che a me davano profondamente fastidio anche solo ad ascoltarli. Ma, sono cosciente che si tratta di un passaggio obbligato, per fare vedere che esiste questa realtà. Sicuramente ci sarà qualcuno, com’è già successo all’uscita del testo, convito che Acab voglia togliere la museruola al rottweiler che è in noi”.
No, quest’ultimo passaggio non è scattato. In nessuno dei ragazzi presenti in sala ieri, e che ho ascoltato parlare fuori dal cinema Adriano. Quello che è successo, invece, è che molti si sono sentiti insicuri, di fronte ad alcune scene di violenza. E si riconoscevano, una volta nel ragazzo di strada, figlio del celerino-capo, una volta nel ragazzo di strada che diventa celerino-pischello. Insomma, nelle due figure più deboli, più fragili, presenti sullo schermo.
Nessuno ha inneggiato al film, e nessuno lo ha accusato di eccessiva violenza. Questo dovrebbe far pensare. Perché, in realtà, alcune scene sono di una forza, di un eccesso, di una prepotenza, che nessuno dovrebbe essere in grado di sostenere. E tutti, celerini e gente di strada, avevano solo una cosa in comune: quel sentimento irrefrenabile di rancore, di odio, di intolleranza nei confronti delle istituzioni. Politici, Parlamento, Stato, tutti vengono presi di mira, come il nemico numero uno, perché – dal film si evince – i casi della vita portano a concludere questo. Ora, così, si spiega anche perché ieri, durante il minuto di silenzio sul campo dell’Olimpico, prima della partita, per la morte di Oscar Luigi Scalfaro, la curva abbia fischiato tutto il tempo.
Ma le domande sono queste: perché il limite entro il quale questi poliziotti usano la violenza è così poco decifrabile? Perché tutti si ricostruiscono un senso dello Stato del tutto personale? Chi guarderà il film? Da dove nasce, allo stadio, questo rancore antico nei confronti delle forze dell’ordine: voglio dire, prima dei casi sopracitati, anni Sessanta e Settanta, era lo stesso così?