“Pagare il canone è un obbligo”. Pagarlo tre volte no. Eppure succede anche questo in Rai, dove il rubinetto della spesa si apre anche quando si potrebbe risparmiare. L’esempio arriva proprio da quello spot che ricorda agli italiani di pagare l’abbonamento entro il 31 gennaio. L’azienda lo ha fatto realizzare esternamente affidandolo all’agenzia McCann Erickson per circa 300mila euro. Una goccia nel mare delle spese legate all’operazione canone, visto che solo il recapito dei bollettini postali a 16 milioni di italiani costa 2,8 milioni. Il punto è che la Rai ha strutture interne per produrre spot che sottoutilizza a tutto vantaggio di commesse esterne ben più costose.
Il risultato è paradossale, per l’abbonato e per l’azienda. Il primo paga tre volte: paga il canone, i costi dello spot e lo stipendio a chi lo avrebbe potuto produrre a basso costo e non l’ha potuto fare. La stessa Rai, che dovrebbe coprire i costi con la pubblicità, si ritrova invece a spendere per farla a se stessa e a un tributo che – ciliegina sulla torta – è stato aumentato a 112 euro. Beghe interne e piccoli sprechi come questo rimarrebbero dietro i cancelli di viale Mazzini se, al tempo stesso, la Rai non avesse varato un piano di ristrutturazione con tagli per 112 milioni alle strutture produttive (Rai Way, Rai International, Rai Corporation e uffici di corrispondenza) e un giro di vite su 560 dipendenti, che non intacca minimamente l’area delle commesse esterne, degli affidamenti e delle consulenze che pesa per metà di un bilancio da tre miliardi.
“E’ il cuore del problema. Esiste un sistema di costi occulti che nessun Cda si azzarda a toccare perché è quella parte della spesa che garantisce la gestione del potere e la discrezionalità di partiti e potenti di turno sull’informazione pubblica”, denuncia il segretario generale della Slc-Cgil Emilio Miceli, che già a giugno 2010 chiedeva una commissione d’indagine sulla “Rai sommersa”. Le sei sigle sindacali in Rai (Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Snater e Libersind) sono tornate alla carica prima dello sciopero del 22 dicembre scorso, riproponendo all’azienda una commissione paritetica per far luce sui conti prima di tagliare i posti. “La proposta è naufragata subito e il Cda Rai sta andando avanti con un piano di risanamento che taglia solo dove le è consentito, cioè la capacità produttiva della stessa azienda”.
Il risultato finale, sostengono i sindacati, sarà inverso alle aspettative: si duplicheranno i costi, proprio come per gli spot, perché i lavoratori spostati a seguito della cancellazione dei programmi rimarranno in azienda, ma il loro lavoro sarà appaltato all’esterno. “Si paga due volte per lo stesso servizio”, continua Miceli. “Poi l’unica salvezza resta quella di scaricare tutto sul canone, ma a fare i manager in questo modo siam bravi tutti”.
“In Rai l’80% del lavoro di regia viene affidato a registi esterni quando l’organico aziendale ne conta 400”, rimarca Piero Pellegrino dello Snater. Una scelta che è figlia della volontà ormai ventennale di privatizzare il servizio pubblico riducendo l’azienda a una stazione appaltante a uso esterno. L’assalto, iniziato all’epoca di Pier Luigi Celli con il governo di centrosinistra, è proseguito attraverso i governi di centrodestra e fino ai giorni nostri, con punte di raro accanimento, come i contratti-capestro della gestione di Flavio Cattaneo a favore di Endemol per 100 milioni di euro. “Si deve invertire questa tendenza, magari partendo proprio dagli spot di questi giorni che sono emblematici: vanno in onda per chiedere un giusto tributo ai cittadini, ma al tempo stesso certificano la propensione dell’azienda a caricare costi, sottoutilizzare le risorse interne e far pagare ai contribuenti due volte la stessa cosa”.
Nel merito degli spot, è bene sapere che c’è una specifica divisione Rai che li realizza. Fa capo alla Direzione Comunicazione (DiCom) e ha un direttore, un vicedirettore e una ventina di dipendenti, dieci dei quali a tempo indeterminato e gli altri in fase di stabilizzazione. Ha lavorato parecchio, in passato: dalle campagne per il segretariato sociale (Telethon, Unicef, Ail, Legambiente e altre) alle campagne-evento (il Salone del libro di Torino, il Premio Italia) e promozioni di programmi come Sanremo o di fiction di punta (Orgoglio, Capri, Come eravamo, Un medico in famiglia). “Ciascuno dei registi della DiCom realizzava una media di 12-13 spot al mese a costi industriali ridottissimi, da 6 a 20mila euro. Fino a quando il loro lavoro è stato ridotto al lumicino, facendolo transitare verso commesse esterne o collaboratori di altre strutture che comportano nuovi costi”, racconta Pellegrino che proprio per queste vicende ha difeso i dipendenti in un arbitrato contro l’azienda. Dipendenti che oltre al danno del lavoro sottratto hanno anche subito la beffa di vedersi accusare dall’azienda stessa di girarsi i pollici. “Alle fine le due commissioni che hanno trattato i casi hanno sollevato i lavoratori dall’accusa e riconosciuto le loro ragioni”.