Avvertenza per i lettori: non appartengo certo al folto plotone di berluscones pronti a sfruttare la partecipazione di Celentano al prossimo Sanremo per accusare il servizio (…) pubblico (…) di sperperare il denaro. Ma rivendico la mia assoluta avversità al succitato Molleggiato. In pratica: non lo sopporto e sopporto ancor meno il fatto che la sua prossima partecipazione al Festival costerà ai conti pubblici (anche nostri ovviamente) qualcosa come 750.000 euro. Una partecipazione che sa molto di foglia di fico: abbiamo cancellato Dandini, Santoro e Saviano ma spendiamo un sacco di soldi per i soliloqui di uno che (secondo quanto pensa Lei) è sullo stesso livello o forse più su.
Ecco qui sta il problema; a parità di foglie di fico televisive Celentano sta a Benigni come, per dire, a parità di direttori del Tg1 Maccari sta a Biagi. Celentano si è issato al ruolo di re degli ignoranti ma non gli è bastato per diventare in grado di fare dell’ignoranza qualcosa di rivoluzionario, come lui e quelli vicini a lui sostengono che sia. Quando parla sembra non dica nulla e quando dice qualcosa (ricordate il tormentone rock/lento?) è chiaro che è stato pensato dai suoi autori: e quando lui ne parla sembra che reciti teleguidato, come un pupo siciliano. Che la sua confidenza con i contenuti sia, diciamo così, farraginosa, è dimostrato dal fatto che è diventato celebre in tv per i silenzi. Al cinema, tacendo per onor di patria di “Joan Lui, è stato l’eroe di una stagione precinepattoni o giù di lì fatta di “Asso”, “Bisbetico domato” e altre facezie.
In musica qualcosa di buono ha fatto in gioventù: ero un fan di “Mondo in MI7” ad esempio. Poi quando pareva stracotto è miliardamente risorto anche grazie alla collaborazione con Gianni Bella che, con tutto il rispetto, non è Nino Rota. E si è fatto paladino di una specie di neoromanticismo targato Pero invece di Napoli. A partità di soliloqui quelli di Saviano di sedici minuti varranno cento volte quelli di un Celentano la cui partecipazione sanremasca sarà certamente inprontata non da un desiderio di partecipazione civile; ma da una strategia di marketing che comprenderà un nuovo disco, un libro, una nuova moglie (no, questa no) o chissà cosa. Sento già l’obiezione: la Rai ha bisogno del supernazionalpopolare per garantire la qualità. Peccato che la qualità non esista più se non nelle riproposizioni di Rai Storia. Cattolico, ecologista, tuttologo, stramiliardario, furbo: 750.000 euro per il nulla? No, grazie.