Venerdì 3 febbraio non prendete impegni: tocca andare al cinema. Ma dimenticate il Benvenuti al Nord, qui il benvenuti è nel cinema che rimane: Hugo Cabret è il film più personale di Martin Scorsese da anni a questa parte, il più privato, immaginifico e radicale. Dopo decenni di onoratissimo servizio e qualche lavoretto su commissione, il regista può finalmente consegnare il suo film-testamento, scucendo di tasca altrui un budget mostruoso di 170 milioni di dollari e prendendo un bestseller – di Brian Selznick – per adattare i proprio sogni, le proprie ossessioni e la propria visione del mondo (Weltanschauung).
C’è di tutto, e di più in questo Hugo Cabret, in pole-position con 11 nomination agli 84esimi Academy Awards: cinema, meta-cinema, cinema-sogno, sogno-cinema, moviola da “Padreterno”, politica degli autori, interazione uomo-macchina, il grande orologiaio, la settima arte orfana di passato, il presente colto dallo spioncino della cabina di proiezione, la conservazione e l’archivio. E un unico scatto: dietro una macchina fotografica antidiluviana, c’è lui, Scorsese, a immortalare il suo avo, il suo “analogo” di quasi cent’anni prima, Georges Méliès.
Il resto è proiezione e retroproiezione, piano sequenza e carrellate ottiche, computer grafica e un 3D urgente, necessario, formalmente ineccepibile, e furbissimo: Scorsese ha fatto allentare i cordoni della borsa “promettendo” un family-movie stereoscopico per grandi e piccini. Non che i secondi non possano trarre divertimento, ma Hugo Cabret non è per loro: è per Martin, e per i veri cinefili. Per Martin, perché altro non è che un viaggio nel tempo e nel tempo della settima arte secondo le traiettorie di un cineasta che mangia e discetta di cinema senza pari: sulla scorta del romanzo di Selznick riesce nell’inaudito, riportare in vita in carne e ossa delegate – Ben Kingsley, superbo – il demiurgo del cinema-invenzione, del cinema non rappresentativo, ma (ri)creativo, ovvero Georges Méliès, e soprattutto rifissarne sulla tela-schermo le immagini, i colori, i bon mots e le gag, i suoi film, a partire da Voyage dans la lune.
L’amore di cinema sprizza da ogni inquadratura, con le più suggestive, le più programmatiche a far da guida: gli sguardi di Hugo Cabret (l’esordiente Asa Butterfield, una rockstar inglese in miniatura, tra Jarvis Cocker e Brett Anderson, ma con gli occhioni blu), orfano e piccolo orologiaio in incognito della stazione di Parigi, filtrano attraverso un diaframma di vetro – il vetro dell’orologio, ovvero quello della macchina da presa – e hanno alle spalle il quadrante con le lancette, l’immagine-tempo della settima arte.
Sì, il riferimento teorico è a Gilles Deleuze [L’immagine-movimento (1983); L’immagine-tempo (1985)] e l’immagine-movimento è Hugo Cabret stesso, un caleidoscopico, fantasmagorico serbatoio di figure retoriche, metonimia, sineddoche, mise en abyme, e chi più ne ha più ne ritrovi in questo Viaggio al centro della terra-cinema degno di Jules Verne, con le rotelle che funzionano alla perfezione, ingranaggi di un meccanismo così oliato da essere “vero”: Scorsese è utopico e mesmerizzante come già suo papà Georges (Méliès). E pure lui triste, tristissimo: Hugo Cabret non è solo lo zenit, ma l’apogeo della decadenza della settima arte. Scorsese dice, ovvero fa dire a Méliès, che di cinema si muore o si soffre, perché si trova l’oblio sociale e si sperimenta la depressione professionale: eppure, si può uscirne a testa alta, perché il “negativo” è il positivo della settima arte.
E così, tra una sinfonia meccanica e quella di una grande città, le geometrie variabili di Borges, l’architettura di Escher e la Metropolis di Fritz Lang, ecco il sogno in “automatico”, l’automa, l’interazione uomo-macchina (complementare all’interazione macchina-uomo della protesi, qui alla gamba del reduce della Grande Guerra Sacha Baron Cohen), che è lascito memoriale privato (il padre di Hugo Cabret, Jude Law) e pubblico (il padre di Scorsese, Méliés), ovvero, in definitiva, il cinema stesso, arte-industriale di una creatura mitologica metà uomo e metà macchina da presa, il regista. Come l’automa disegna, così il film, che traccia linee e collega puntini nel corso del tempo.
Immagine-tempo e immagine-movimento, per far coincidere qui e ora le origini e il futuro nel montaggio delle attrazioni: Hugo è un’attrazione. Spericolata, folle, meravigliosa. E imperdibile.