Parliamo delle condanne della procura contabile rimaste sulla carta. Soldi - si stima mezzo miliardo - di cui le casse pubbliche hanno diritto e di cui però non riescono a prendere possesso. Perché? Perché i condannati cercano di non pagare. E spesso ci riescono
I ministeri hanno in mano un tesoro, ma non riescono a incassarlo. Erano 490 milioni quattro anni fa e oggi siamo sempre intorno al mezzo miliardo. Ma com’è possibile? Era lo stesso Ristuccia a spiegarlo: “L’entità dei residui dimostra in concreto la persistente propensione a sottrarsi alle conseguenze del giudicato”. In parole semplici: i condannati cercano di non pagare. E spesso ci riescono. Ma com’è possibile? A spiegarlo è uno dei tanti sostituti procuratori della Corte, uno di quei magistrati che ogni giorno vedono le proprie sentenze restare ineseguite: servirebbe un “potenziamento degli strumenti”, ci sarebbe bisogno insomma di nuove leggi: “Adesso è previsto un termine di dieci anni per recuperare il denaro. Troppi, una parte dei crediti passa in cavalleria”. Rimedi? “L’esecuzione invece di essere affidata alle amministrazioni danneggiate potrebbe essere lasciata alle Procure della Corte dei Conti”.
In passato andava peggio: negli anni ‘90 lo Stato incassava circa l’un per cento del denaro cui aveva diritto. Una mancia. La Procura della Corte dei Conti ha tracciato un bilancio dell’attività tra il 2005 e il 2010: si è arrivati a recuperare il 19,8 per cento delle somme stabilite dai giudici. Meno di un quinto del totale. Ma la colpa non è della Corte. Anzi. Basta ripercorrere l’iter necessario per eseguire le sentenze per capire le radici del problema: c’è la sentenza di primo grado, poi quella di secondo, quindi la parola passa alle amministrazioni danneggiate che devono farsi restituire il denaro. Tra corsi e ricorsi ci vogliono anni. Senza contare chi le prova tutte per sottrarsi al pagamento. Certo, una parte di questo tesoro è destinato a restare sulla carta. Spiega Ermete Bogetti, procuratore della Corte dei Conti della Liguria: “Ci sono amministratori infedeli, magari condannati per peculato, che vengono condannati a pagare dieci, venti milioni, perché quello è il danno provocato allo Stato. La sanzione non può essere stabilita in base alle disponibilità dei condannati. Ma incassare una somma simile da un dipendente pubblico è impossibile”. Ma togliamo pure questa fetta, restano centinaia di milioni.
Lo Stato non è un creditore molto aggressivo. Ci sono i pignoramenti, ma anche gli eventuali sequestri rischiano di arrivare quando ormai i beni sono stati “inguattati”. Ricorda Bogetti: “Al massimo si può pignorare un quinto dello stipendio”. Qui lo Stato si dimostra di nuovo benevolo: prendiamo il caso di un funzionario colpevole di peculato e per questo licenziato. Le Corti dei Conti più di una volta hanno puntato sulla liquidazione. Niente da fare: anche il dipendente pubblico che ha truffato lo Stato ha diritto al trattamento di fine rapporto. Al massimo decurtato di un quinto. Tante garanzie per i debitori, poche per il creditore, lo Stato e i cittadini. Quelli che se i soldi finissero nelle casse pubbliche potrebbero sperare di spendere qualche euro in meno di benzina e di Imu.
da Il Fatto Quotidiano del 31 gennaio 2011