Il giro di vite imposto dall'Esercito ha obbligato molti cooperanti a chiedere rifugio nell'Ambasciata degli Stati Uniti. La repressione contro le organizzazioni che sostengono la rivoluzione di Piazza Tahrir è cominciata a dicembre con la scusa di un'indagine sulla gestione dei fondi
L’ultimo obiettivo delle forze armate è la stretta sulle organizzazioni non governative straniere che appoggiano il movimento di Piazza Tahrir o che sostengono o fanno consulenza alle formazioni politiche progressiste egiziane. Nel mirino ci sono soprattutto le Ong che ricevono fondi dagli Stati Uniti. Una stretta così improvvisa e decisa da aver spinto alcuni tra i loro operatori “expat” e membri dello staff internazionale a chiedere rifugio all’ambasciata americana. Una mossa originata, tra l’altro, dalle preoccupazioni sollecitate da una sorta di lista nera di cittadini statunitensi, almeno mezza dozzina, ai quali le autorità egiziane hanno imposto il divieto di viaggiare nel Paese e che correrebbero dunque il rischio di essere arrestati.
Il giro di vite sulle Ong è iniziato a fine dicembre, quando la polizia egiziana ha bussato agli uffici di 17 organizzazioni non governative, nell’ambito di quella che ufficialmente era una indagine sulla gestione dei fondi, ma ufficiosamente sembrava un modo per mettere sotto pressione alcune voci critiche sulla politica del Consiglio supremo militare.
E’ l’ennesimo capitolo che si aggiunge a una situazione di tensione che vede oggi nuove manifestazioni in diverse aree del Paese per chiedere al Consiglio dei generali di velocizzare il passaggio di consegne dall’autorità militare a quella civile. Al Cairo i manifestanti si sono dati appuntamento davanti al Parlamento.
Che un’ambasciata apra i battenti per ospitare i cittadini del proprio Paese non è un rituale ordinario. Il gruppetto di membri delle Ong americane ha però trovato rifugio con facilità nella sede diplomatica statunitense dove gli “ospiti” contano di rimanere sino a che non saranno scuri di avere il permesso di lasciare l’Egitto.
Secondo diverse fonti, non c’è una minaccia palese ma evidentemente il timore di essere bloccati all’aeroporto e di essere arrestati ha indotto i non-governativi a chiedere asilo al governo, che di solito consente l’ospitalità in ambasciata solo per motivi ritenuti gravi e reali. Tra gli attivisti pro democratici c’è anche Sam LaHood, direttore al Cairo dell’ufficio dell’International Republican Institute (Iri), finanziato con denaro statunitense, e figlio dell’ex parlamentare repubblicano, ora ministro dei trasporti del governo Obama, Raymond “Ray” LaHood.
Non è tutto. Il mese scorso le autorità egiziane sono andate senza troppi preamboli negli uffici di diverse Ong finanziate dagli Usa (l’Iri, National Democratic Institute, Freedom House) facendo capire che stava arrivando la stretta: una svolta trasformatasi in un’inchiesta penale della magistratura cairota che ha portato al fermo, per un giorno, dello stesso LaHood. La tensione ha cominciato a salire, trasformando la querelle tra egiziani e non governativi statunitensi in un caso politico tra Washington e Il Cairo. L’esistenza della lista nera è stata scoperta qualche giorno fa e non ha fatto che complicare le cose, tanto che domenica scorsa una delegazione di generali egiziani è arrivata a Washington proprio per discutere la linea dura contro le Ong.
Il Congresso, infatti, ha reagito malissimo alla stretta decisa dai militari egiziani, fino a mettere in discussione l’aiuto militare che ogni anno Washington eroga al Cairo (1,3 miliardi di dollari circa).
Sul fronte delle misure restrittive va poi segnalato che nel Consiglio militare è stato silurato il responsabile per l’informazione, generale Ismail Etman, ritenuto troppo morbido con i media che hanno “danneggiato” in questi mesi l’immagine dell’esercito.
di Emanuele Milanese