E diciamocelo, l’accostamento stranieri/letteratura, per usare un linguaggio facebookiano, ci piace. Ci piace perché finalmente rompe quegli odiosi dualismi ai quali ci hanno abituati: stranieri/delinquenza, extracomunitari/sicurezza, marocchini/vucumprà.
Ebbene sì, esistono altri spazi in cui la comunità dei migranti si muove, propone e prospera.
Esiste la lingua italiana, che più del colore della pelle o dell’origine dichiaratamente straniera del nome, racchiude nella sua difficoltà sorniona il disagio dello straniero, la sua precarietà in una terra difficile da addomesticare. Esiste il talento che quando bacia lo fa ad occhi chiusi e non gli importa che ti chiami Antonio Tabucchi o Pap Khouma. E infine esistono quegli stranieri che conquistano la lingua e da essa si fanno conquistare e “commettono” la letteratura in un idioma che non hanno preso dal seno materno.
Di per sé è un atto di coraggio, d’amore verso la lingua ospitante, verso il paese che ha avvertito la molla per la sua unificazione nella lingua prima ancora che nella storia.
Si sa non tutti gli amori possono o debbono essere corrisposti, e se parte dell’editoria o della critica snobba questi innamorati dalla pelle scura o dal nome non italico, in verità interpreta quell’ atteggiamento di sospetto al quale gli stranieri in generale sono soggetti.
Non è facile determinare dove si annida il germe di questa diffidenza, dal momento in cui le sue ramificazioni si estendono dalla politica, all’economia, dai mass media alla gente comune, e volendo fare un’analisi pertinente e approfondita si può tranquillamente scomodare anche la storia e l’antropologia.
Personalmente non ho nessun interesse ad indagare se esiste un razzismo letterario o meno. Lo scrittore straniero alla fine è uno straniero tout court, quindi per lui vale lo stesso atteggiamento, la stessa legislazione che vale per il muratore albanese o l’ambulante senegalese, forse solo la sua frustrazione è maggiore.
La linea politica dell’Italia riguardo all’immigrazione è ben espressa nella legge Bossi/Fini, e meglio interpretata nelle ordinanze aberranti di sindaci e prefetti, un misto di sado-masochismo, di schizofrenia, di palese ipocrisia: da una parte si vogliono gli immigrati, ma dall’altra li si deve tenere in uno spazio sospeso fra la regolarità e l’irregolarità, non una risorsa da includere nel tessuto sociale, culturale, economico e politico del paese, ma un “uomo nero” sulla cui pelle fare comizi elettorali e dichiarazioni fiammanti.
Ecco il contesto in cui si muove uno scrittore straniero di lingua italiana e dal quale, parlando di letteratura dell’immigrazione, non si può e non si deve prescindere.
Tuttavia questo scoraggiante contesto non può in nessun modo costituire un alibi per i prosatori stranieri affinché si appoggino su delle narrazioni accomodanti e scontate, bensì devono onorare il loro verbo, strappandosi quell’etichetta dell’esotismo, del folcloristico, della vittima lagnosa che l’industria della cultura gli vuole cucire addosso.
Gli scrittori stranieri devono rompere con quella provincialità che li vuole simili a dei cantastorie, una specie di Shahrazad intrattenitrice che lamenta il distacco dalla terra natale amata e odiata e che con fare deluso e civettuolo strizza l’occhio al paese ospitante.
Gli autori stranieri devono osare, entrare per effrazione nella storia e nell’attualità del paese, scorticarle, optare non per una narrazione elitaria per oggetto o soggetto, ma parlare a tutti e di tutto.
Gli autori stranieri devono trovare spunti d’ ispirazione non solo nella loro condizione di esuli, ma anche nel loro stato di cittadini che vivono in un paese che offre tanto materiale per un uomo di lettere, dal risorgimento italiano al fascismo, dalla stagione delle stragi alla crisi economica, senza per questo smettere di smuovere le coscienze su tematiche come il razzismo, l’alienazione dei migranti o le ingiustizie nei confronti degli ultimi.
L’interazione non l’integrazione, ecco cosa devono pretendere gli scrittori stranieri.
Quanto ai premi forse ci si può consolare con il pensiero che né Anton Cekhov né Jean Genét hanno mai vinto nulla.
Rabii El Gamrani