Un mese prima della strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino fu informato dai carabinieri di un attentato in preparazione ai suoi danni da parte di Cosa nostra. Ma ai militari il magistrato rispose: “Lo so, lo so: devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia”.
Lo ha raccontato il colonnello dei carabinieri Umberto Sinico, deponendo come testimone a Palermo nel processo sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano, che vede imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. Sinico ha ricordato di aver saputo del progetto di attentato da un mafioso detenuto, Girolamo D’Anna, di Terrasini, confidente del maresciallo che comandava la stazione del paese a 40 chilometri da Palermo, Antonino Lombardo, poi morto suicida nel marzo del ’95.
Nel giugno del 1992, “a sentire D’Anna, nel carcere di Fossombrone, andammo io, Lombardo e il comandante della compagnia di Carini, Giovanni Baudo, ma Lombardo fu il solo a parlare con D’Anna, che disse dell’esplosivo e dell’idea di attentato. Subito ripartimmo e andammo dal procuratore a riferirglielo e lui ci rispose in quel modo, di saperlo e di dover lasciare qualche spiraglio. ‘Procuratore, risposi io, allora cambiamo mestiere'”.
Sinico ha descritto Girolamo D’Anna come un uomo d’orore “posato”, cioè estromesso, perché vicino a Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi rappresentante della vecchia mafia soccombente ai corleonesi di Totò Riina. “Era persona di grande carisma, veniva interpellato dai vertici della sua parte criminale”. La ricostruzione di Sinico esclude dunque che vi fossero contrasti tra Borsellino e la sezione Anticrimine dei carabinieri di Palermo e le tesi secondo cui al magistrato fu nascosto dai carabinieri che fosse arrivato l’esplosivo per compiere l’attentato ai suoi danni.
Borsellino, ha concluso l’ufficiale, “era conscio del destino che lo aspettava e sembrava che non volesse opporsi”. Destino che si presenterà il 19 luglio di quello stesso anno, con la strage di via D’Amelio a Palermo.