Una cattiva notizia ci ha svegliato questa mattina. Non la neve, come ci avevano annunciato, ma una sentenza di Cassazione destinata a portarci indietro di 35 anni, quando la maggior parte delle donne giovani, cui credevamo di aver consegnato un mondo migliore – dove poter uscire di notte, mettere una minigonna, vivere la propria sessualità liberamente come i loro coetanei – non era ancora nata. La Corte di Cassazione, con una sentenza, in cui pure si rivendicano sacrosanti principi costituzionali quali la “libertà personale” e perfino la “funzione della pena”, ha affermato che la violenza sessuale non è poi un reato tanto grave da comportare la detenzione in carcere, al massimo possono prevedersi i “domiciliari”.
Non parliamo delle tante violenze che le donne subiscono in famiglia, da parte dell’ex marito o innamorato respinto, ma del più spregevole dei reati: lo stupro di gruppo. Quando a commetterlo è il “branco”: due, tre o più uomini che concepiscono il sesso come atto predatorio e rivendicano il diritto di appropriarsene come e quando vogliono, anche per riaffermare la proprio superiorità di specie. Quasi fosse un self service. Il supremo giudice, con parrucca ed ermellino, sembra dimenticare che queste atroci violenze mutilano la donna nel corpo e nella psiche, quando non sfociano, come spesso accade, in omicidio.
Non è soltanto una sentenza sbagliata “sotto il profilo tecnico”, come rivendica l’avvocata Giulia Bongiorno, è una sentenza aberrante che cancella con un colpo di spugna decenni di battaglie che le donne hanno combattuto per rivendicare il proprio diritto a essere considerate “persone”. Pochi ricordano che prima che l’avvocato Tina Lagostena, allieva di Giuliano Vassalli, scendesse nell’arena sanguinaria dei processi per stupro, la violenza sessuale non era neppure considerato un reato “contro la persona”. Ma un reato contro la morale, perciò aveva un certo valore se la donna era ancora vergine (avendo provocato un danno irreparabile nei confronti del futuro marito e lo “ius primae noctis”) ma valeva ben poco se invece non lo era. Certe cose non accadono a donne “perbene”, ma a “quelle” che se la vanno a cercare era la filosofia di base.
Penso che molto si parlerà di questa sentenza, voglio soltanto ricordare quale vittoria immensa fu poter assistere al Processo per stupro, trasmesso dalla Rai il 26 aprile 1979. L’idea di documentare il processo era nata da un convegno internazionale femminista svoltosi nella Casa delle donne in via del Governo vecchio a Roma. Fu poi trasmesso al Festival di Berlino, dove ottenne perfino un premio. La vittima era Fiorella, 18 anni, di Latina: la ragazzina aveva denunciato quattro uomini, fra cui un conoscente, che l’aveva invitata, lei lavoratrice in nero, in una villa per discutere una proposta di lavoro stabile. Ahi, una ragazza per bene non accetta simili inviti!
Memorabile l’arringa di Tina: “Presidente, giudici, noi donne siamo presenti a questo processo. Prima di tutto Fiorella, poi le compagne in aula, ed io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato… noi chiediamo giustizia…noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia ed è una cosa diversa. Chiediamo che anche nelle aule dei tribunali, ed attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali, si modifichi quella che è la concezione del nostro Paese: la donna non è un oggetto… Vi diranno gli imputati e io mi auguro di riuscire ad avere la forza di sentirli – non sempre ce l’ho, lo confesso – di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. La difesa è sacra, inviolabile… nessuno di noi avvocati si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che entrano in una gioielleria: ‘Vabbè, però il gioielliere ha un passato poco chiaro, magari ha ricettato, evade le tasse!’. Nessuno si sognerebbe di infangare la parte lesa. Io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza”.
Se lo chiedeva Tina Lagostena, ce lo chiediamo ancora oggi noi. Signori, giudici, abbiamo altro per la testa: cercare un lavoro, mantenere i figli, pagare le bollette. Quei trogloditi degli stupratori stiano in carcere almeno un po’, noi nella vostra caverna non vogliamo tornarci.