Sale di un’ottava la guerra psicologica a distanza tra Israele e Iran. Il quotidiano statunitense Washington Post ha raccolto le “confidenze” mirate del segretario della difesa Leon Panetta che, durante un viaggio, ha detto al giornalista David Ignatius di temere un attacco israeliano contro i siti nucleari iraniani “in primavera”, tra aprile e giugno.

Ad alimentare i timori del capo del Pentagono ci sono una serie di elementi: l’esercito israeliano non ha dato la disponibilità di truppe per esercitazioni congiunte con gli Usa previste proprio in primavera; secondo alcuni rapporti di intelligence, poi, entro giugno l’Iran potrebbe decidere di spostare una parte delle apparecchiature per l’arricchimento dell’uranio in siti più protetti di quelli attuali. Questo momento potrebbe essere quello migliore per sferrare un attacco. Secondo il Washington Post, Israele starebbe pensando a una serie di bombardamenti mirati, della durata di 4 o 5 giorni, prima di un probabile intervento dell’Onu che imporrebbe un cessate il fuoco. In pratica, la riedizione su scala più vasta del raid con cui l’aviazione israeliana distrusse nel 1982 il reattore nucleare iracheno di Osirak. Un atto del genere, va da sé, produrrebbe una durissima reazione iraniana, che – negli scenari allo studio – va dalla chiusura dello stretto di Hormuz, crocevia del traffico petrolifero mondiale, fino al lancio di razzi a lunga gittata sulle città israeliane o sulle unità statunitensi nel Golfo persico. Da lì in poi, tutto è possibile, dal coinvolgimento delle milizie libanesi di Hezbollah per colpire il nord di Israele fino a una guerra generalizzata in Medio Oriente.

Le previsioni apocalittiche di Panetta, però, devono misurarsi con una serie di difficoltà: la prima, tecnica, è che gli aerei israeliani non hanno il raggio d’azione per arrivare in Iran, almeno non in tutti i siti nucleari possibili “bersagli”. Servirebbero, dunque, basi d’appoggio lungo la rotta (Arabia saudita?) o rifornimenti in volo sopra i cieli iracheni o sauditi. La seconda, politica, è che come scrive oggi il quotidiano israeliano Haaretz, la leadership israeliana non è affatto univoca nella valutazione della situazione. Da un lato ci sono i “falchi”, come il ministro della difesa Ehud Barak e il ministro per gli affari strategici Moshe Ya’alon. I due hanno più volte sottolineato come l’Iran stia per entrare in quella “zona di immunità” in cui sarà sempre più difficile riuscire a impedire che arrivi a dotarsi di un’arma nucleare. Ya’alon, peraltro, ha aggiunto un Iran con capacità nucleari “è una minaccia per tutti i paesi arabi”, oltre che per Israele.

Più cauto, invece, Aviv Kochavi, direttore dell’intelligence militare di Israele. Secondo Kochavi, la decisione di produrre armi nucleari non è stata ancora presa dalla leadership iraniana e se dovesse essere assunta, “ci vorrà un anno” per creare le strutture per produrre una testata atomica. Altri due o tre anni potrebbero essere necessari perché una testata atomica efficace possa essere effettivamente prodotta. Kochavi ha aggiunto ancora che, secondo l’intelligence militare israeliana, l’Iran ha al momento circa 4 tonnellate di uranio arricchito al 3 per cento e cento chili di uranio arricchito al 20 per cento. Se questo uranio arrivasse al grado “weapon ready” (arricchimento al 90 per cento) potrebbe bastare per quattro testate atomiche. C’è il tempo quindi per aumentare la pressione economica sul Paese, che ha un’inflazione al 24 per cento e almeno il 16 per cento di disoccupati, oltre a una crescita economica zero, che virerà probabilmente in negativo man mano che gli effetti delle nuove sanzioni statunitensi ed europee si faranno sentire.

Proprio alle sanzioni ha dedicato una parte del suo discorso di venerdì l’ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran: “Le sanzioni non avranno alcun effetto – ha detto nel suo sermone trasmesso dalla tv iraniana – Minacciare l’Iran creerà danno all’America e in risposta alle sanzioni sul petrolio e alle minacce di guerra, abbiamo le nostre misure da prendere al momento opportuno”.

Chi prende sul serio le minacce incrociate, invece, è il vice premier britannico Nick Clegg, che in un’intervista alla rivista The House magazine, ha detto che “alcuni paesi potrebbero essere tentati di prendere la questione del nucleare iraniano nelle proprie mani”. Un’allusione a Israele, secondo gli osservatori, a cui Clegg non ha voluto aggiungere alcun chiarimento circa la posizione che la Gran Bretagna potrebbe assumere in caso di escalation militare. Mercoledì, invece, è stato il segretario dell’Onu Ban Ki-Moon a lanciare un avvertimento diretto al governo di Benyamin Netanyahu. Durante la sua visita in Israele, Ki Moon ha ripetuto quanto detto una settimana al Wef di Davos: “Non ci sono alternative a una soluzione pacifica”. Non basta la sua parola, però, per far accantonare i piani militari.

di Joseph Zarlingo

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