Caro Presidente,
diciamocelo francamente, la sua è stata davvero una battuta infelice. Glielo dico da donna precaria, in scadenza da sempre, soprattutto da quando sono diventata mamma. Da 14 mesi a questa parte, la condizione di precarietà che mi accompagna dai tempi dell’università prima, della specializzazione e del praticantato poi, è diventata la vera monotonia. Ecco, il punto è proprio questo: se, come dice lei, “è bello cambiare” e “accettare nuove sfide”, le assicuro che nella nostra precarietà a tempo indeterminato non solo non c’è niente di bello, ma non c’è neanche il cambiamento.
E l’unica sfida al massimo è quella di sopravvivere senza stipendio. La sua affermazione sarebbe pur condivisibile, se la precarietà fosse flessibilità e garantisse continuità lavorativa e di retribuzione. Nel nostro caso, invece, è un’imposizione inutile alla nostra crescita professionale e umana.
Caro Presidente, le parole hanno un senso. E in questo caso la superficialità non ha giocato a suo favore perché tale senso è stato ampiamente ignorato. Provo quindi a raccontarle io cosa c’è dietro la condizione di una mamma precaria. Una mamma precaria ha scarse possibilità di accedere a un nido comunale perché, se al momento di presentare la domanda si trova temporaneamente inoccupata, non avrà punti in graduatoria. In tal caso, se vuole continuare a lavorare, dovrà rivolgersi a un nido privato, al costo di circa 400 euro al mese. Ma senza un lavoro è difficile che possa permettersi una struttura del genere e, al contempo, senza nido è improbabile che possa andare a lavoro. Una mamma precaria, nella maggior parte dei casi, non godrà della maternità, perché verrà mandata a casa prima. Una mamma precaria, qualora non venisse mandata a casa, vivrà i trimestri della sua gravidanza con un peso sullo stomaco, ben più gravoso del pancione che cresce. Una mamma precaria sarà costretta a nasconderlo quel pancione, per racimolare ogni settimana in più di lavoro.
Una mamma precaria vivrà il futuro col dubbio di aver fatto la scelta giusta e si sentirà offesa, ferita e incompresa quando le chiederanno: ma se sei precaria chi te lo ha fatto fare? E lei ci penserà su tutti i giorni, prima di trovare inequivocabilmente la risposta negli occhi di suo figlio. Una mamma precaria vorrebbe rispondere che l’unica domanda da porsi è se è accettabile, oggi, considerare i figli un lusso, ma non oserà farlo, per il timore di essere giudicata.
Una mamma, o meglio, una coppia di genitori precari, nella maggior parte dei casi costruiranno un nido precario, niente di più innaturale, perché nessuna banca gli concederà mai un mutuo. Una mamma precaria rientra in quelle 800mila donne licenziate, o costrette a lasciare il lavoro, per cause legate alla maternità (ovvero l’8,7% delle donne lavoratrici con almeno un figlio, secondo le stime della Cgil) e fa parte di quel milione di donne secondo cui in Italia coniugare maternità e vita professionale è impossibile, soprattutto per quelle giovani (13% dei casi), che vivono al Sud (10%) e con bassi titoli di studio (10%). Una donna precaria potrebbe subire il fenomeno illegale delle dimissioni in bianco, in base al quale le aziende spesso fanno firmare alle neoassunte delle dimissioni senza data da compilare in caso di futura gravidanza.
Una donna, anche se non precaria, avrà sempre una retribuzione netta mensile del 18% in meno rispetto agli uomini ( 1.077 euro contro i 1.377 dei lavoratori dipendenti maschi). E questo nonostante, secondo una recente ricerca dell’Università Bocconi di Milano, 100mila donne in più al lavoro porterebbero a un aumento del Pil dello 0,28%. Mentre, per la Banca d’Italia, se il tasso raggiungesse il 60% previsto dagli obiettivi di Lisbona, il Pil crescerebbe addirittura del 7%.
Alla luce di tutto ciò, gradirei davvero sentirmi un po’ monotona, con una retribuzione fissa e dignitosa e con una continuità lavorativa che mi permetta di programmare serenamente il futuro. Perché se al posto fisso ci abbiamo rinunciato da tempo, allo stipendio fisso no e neanche ai diritti. Compensi equi e garantiti, ammortizzatori sociali, indennità di disoccupazione, incentivi alle famiglie, accesso ai mutui per i contratti atipici, flessibilità sì ma anche continuità lavorativa.
Caro Presidente, più che pensare alla monotonia di un posto fisso, sempre lo stesso e sempre uguale, preoccupiamoci dell’insostenibilità di un lavoro vacillante, sempre precario e sempre incerto. Talmente mutevole da risultare monotono.