Prima l’annuncio della chiusura della piattaforma di blogging Splinder dopo dieci anni di onorata attività (600 mila utenti e 400 mila blog). Poi la volontà, resa pubblica da Google, di “ottimizzare” molti dei servizi lanciati negli scorsi anni facendo un po’ di “pulizie di primavera”. Infine le azioni giudiziarie che hanno colpito MegaUpload (e altri siti) e che hanno creato problemi anche a quegli utenti che avevano depositato e catalogato file legittimi. Tre ipotesi che stanno rendendo manifesta la “fragilità” intrinseca di alcuni provider gratuiti che rischiano di alimentare sempre di più la categoria degli “orfani digitali”.
Mi spiego: oggi i servizi che “attirano” la maggioranza dei dati (ma anche, vedremo, delle energie) degli utenti sono offerti gratuitamente. Pongo tre esempi banali: Gmail, Facebook e Twitter. Ciò comporta che tali provider assumano pian piano la forma, nella vita dell’utente, di una presenza indispensabile verso la quale gli utenti veicolano tanta energia (in termini di ore, giorni e anni impiegati a organizzare cartelle, catalogare informazioni, creare collezioni di foto, commenti e dati, caricare siti o blog).
Fin qui, niente di male, anzi. Il sito gratuito acquista valore e trae profitto per vie diverse (pubblicità, riutilizzo dei dati degli utenti, et similia) e/o acquista fama e, quindi, valore, proprio grazie al numero degli utenti.
Occorre però sempre tenere a mente che, in linea di principio e tranne rare eccezioni, il rapporto contrattuale che si genera tra l’utente “creatore” e un servizio gratuito può essere molto debole. In particolare, il rischio che il servizio improvvisamente chiuda può portare come conseguenza, all’utente, una serie di problemi.
Il primo è capire come l’utente possa fare per recuperare fruttuosamente tutte le energie investite nel corso degli anni. Si pensi all’organizzazione di un efficace e ragionato sistema di tag (o di categorie dei post) in un blog, che richiede un gran lavoro, o a commenti apposti a fotografie e album, oppure allo sviluppo di una personalità virtuale in un gioco di ruolo, e simili. Questo problema, si badi bene, non si riduce alla possibilità di fare, a un certo punto, un backup (ad esempio: quando il servizio annuncia che sta per chiudere). La cosa più importante è la successiva portabilità del materiale: un backup è inutile se, poi, altri servizi, magari diventati più di moda, non sono in grado di garantire una conversione o una incorporazione trasparente e senza errori nel nuovo ambiente dei vecchi dati.
Sono stato un utilizzatore per anni, sin dalle origini, di Eudora, programma di posta elettronica che trovavo eccezionale per diversi motivi, soprattutto correlati alla sicurezza in un periodo storico in cui circolavano quotidianamente codici maligni per Outlook Express. Ho però provato sulla mia pelle la difficoltà di una conversione perfetta (nonostante le varie funzioni d’importazione presenti nei client successivi) di dieci anni di posta, di cartelle create, di filtri e di messaggi catalogati secondo una certa ratio.
In un mondo fluido quale quello di oggi, dove alcuni servizi in pochi mesi si spostano dal grande successo a un uso di nicchia (si noti il calo che hanno avuto servizi quali Orkut e Second Life che pur avevano beneficiato di momenti di entusiasmo collettivo), il pericolo del lock-in, ossia del rimanere con in mano un mare di informazioni su cui abbiamo lavorato ma che sono fruibili efficacemente solo in un ambiente che non c’è più, è molto attuale.
Il rischio, si è capito, è che molto del tempo che investiamo per “creare” qualcosa all’interno di un servizio gratuito possa essere reso vano da cambiamenti commerciali improvvisi. In alcuni casi, a onor del vero, può capitare il contrario: mi ricordo, ad esempio, il dibattito “nato dal basso” quando Facebook si apprestò a cambiare le policy senza interpellare gli utenti, e la conseguenza pratica che ebbe tale protesta.
Un secondo punto è che, al contempo, oggi esistono servizi che, dietro un modesto contributo (per modesto intendo tra i 20 e i 50 euro l’anno) offrono un “prodotto” che rende il cliente un po’ più tranquillo perché dà (e deve dare!), nel momento in cui è offerto a pagamento, ulteriori garanzie in punto di continuità ed efficienza del servizio, o dell’assistenza, dell’aiuto nella migrazione o del backup di cui si parlava prima.
Per fare qualche esempio (ma l’elenco potrebbe essere fitto), sto apprezzando particolarmente il servizio di posta elettronica offerto dalla canadese Hushmail, circa 27 euro l’anno la e-mail Premium a pagamento, o il servizio di backup “sulle nuvole”, sincronizzazione di dispositivi e restore offerto da SugarSync, sempre attorno ai 40 euro annui. Non ho provato personalmente, ma ho molti colleghi che hanno scelto la versione Business delle Google Apps (circa 40 euro l’anno) associata al proprio dominio, una sorta di Gmail “rinforzata” (più altri servizi) non più gratuita ma con maggiori garanzie contrattuali. E così via.
Probabilmente sono preoccupazioni non fondate, e basate sul mio approccio paranoico. È noto che anche chi offre servizi gratuiti è pur sempre consapevole che un periodo di down del servizio, soprattutto se parliamo di community così frequentate, potrebbe causare danni notevoli anche di immagine (e, quindi, di ritorno pubblicitario). Però l’idea di acquistare i servizi essenziali (posta elettronica, backup e sincronizzazione) anche quando sarebbero disponibili gratuitamente genera automaticamente, almeno nel pensiero dell’acquirente medio, una sorta di rapporto più equo tra l’utente e il fornitore del servizio.
L’idea che pagando qualcosa faccia nascere un dovere in più in capo a chi fornisce il servizio porta al contempo la speranza che, in caso di “disastro”, si possa essere in qualche modo più tutelati e meno “orfani”.