Quando nelle redazioni di moda di mezzo mondo sono arrivate le immagini della nuova campagna Diesel “Misopolis, aborti per una vita di successo”, in molti hanno strabuzzato gli occhi. Eppure per un po’ sono state prese per vere e pubblicate, diffuse, commentate per tutto il web. Fino a quando è stato chiaro che in realtà si trattava di una campagna dell’associazione olandese “Woman on Waves”, che si batte per il diritto alla salute riproduttiva delle donne del mondo.
Le immagini sono fashion, come in una vera pubblicità da marca di abbigliamento, di quelle un po’ provocatorie cui ci hanno ormai abituato (guarda la gallery). Solo che quella che il simil-robot (femmina, vestita come nel film “Metropolis” di Fritz Lang) sta calando nella bocca della modella sdraiata ai suoi piedi, con una bionda in preghiera da un lato e una mora dall’altro, e un altare sullo sfondo, è una pillola. Una comunione moderna, dove al posto dell’ostia c’è una pasticca di Misoprostol (farmaco che induce contrazioni uterine, ndr). E con sotto uno slogan ancora più esplicito: “Pillole abortive, un dono di Dio”. In un altro scatto le modelle sono in guardaroba e dicono addio agli appendini: come strumento per gli aborti clandestini, mentre restano buoni “per appendere i tuoi abiti”. Un altro ancora è per “l’Immacolata contraccezione”: “Quando le bolle scoppiano, succedono le gravidanze indesiderate” (dove le bolle sono i preservativi).
Le immagini stanno nel sito www.dieselforwomen.com e questo ha contribuito a crederla veritiera. Una rapida ricerca permette però di sapere che il sito è in realtà stato registrato da Rebecca Gomperts, la fondatrice di “Women on Waves”. Nata nel 1999, l’associazione con sede ad Amsterdam è nota, anche, perché per lavorare utilizza una nave: l’imbarcazione prende a bordo le donne che vogliono abortire in paesi la cui legge non lo permette e, dopo averle portate in acque internazionali, esegue le interruzioni di gravidanza.
“Women on Waves” ricorda che in un quarto del mondo ci sono leggi restrittive e punitive per le donne che abortiscono; che l’aborto è uno degli interventi medici più diffusi globalmente; che quasi metà degli oltre 40 milioni di aborti l’anno sono illegali e pericolosi. E che su questo pianeta ogni 8 minuti una donna muore in seguito a un aborto clandestino. Ma l’associazione punta il dito anche contro le politiche aziendali della stessa Diesel, che non appare scelta a caso.
L’azienda infatti non l’ha presa benissimo. La multinazionale dell’abbigliamento giovane con sede in Italia, fondata da Enzo Rosso, ha immediatamente fatto mandare dall’ufficio legale a “Women on Waves” l’intimazione a chiudere il sito dieselforwomen.com per violazione delle leggi sui marchi. Non una parola, ovviamente, su aborto o diritti delle donne lavoratrici. Nel finto comunicato che accompagnava le immagini una ambiziosa Diesel dichiarava di voler “rendere possibile uno stile di vita libero per le giovani donne nei mercati emergenti”, per aiutarle a “ vincere una sfida fondamentale della vita: il diritto all’aborto sicuro”. E di voler per questo dare vita a “Misopolis”, un nuovo modello di fabbrica per le lavoratrici perché possano “vivere una vita eccitante, piena di divertimento e feste sfrenate. Un po’ come Metropolis, ma con un sacco di sesso”. Seguendo il ragionamento sul filo della provocazione, il finto annuncio concludeva: “Dopo essere state escluse, abusate, stuprate, impoverite e sfruttate dall’industria dell’abbigliamento, diamo alle donne riconoscimento, dignità e il diritto a un aborto sicuro”.
La realtà della vita nell’industria dell’abbigliamento la raccontano le “Women on Waves”, una volta svelata l’operazione: la quasi totalità dei lavoratori nell’industria dell’abbigliamento sono donne, spesso in un contesto di sfruttamento, giovani (l’età media è 19 anni) e senza risorse per potersi difendere dagli abusi. L’associazione cita il rapporto “Captured by Cotton” del 2011: secondo il testo la Diesel acquista da fornitori che usano il regime “sumangali”, ovvero fanno lavorare per 3 anni le donne con la promessa di avere al termine una grossa somma forfettaria, in realtà parte del loro salario, al di sotto del minimo legale. Mentre la maggior parte delle lavoratrici vive in paesi dove l’aborto è illegale, come Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia, Mongolia, Madagascar, Myanmar, Thailandia, Filippine, Marocco, Brasile, Repubblica Dominicana, El Salvador, Guatemala, Honduras e Giordania.
Quelle di “Women on Waves” hanno molto chiaro quale sia il legame tra sfruttamento del lavoro e aborto sicuro, e lo spiegano difendendo la loro campagna, che è falsa ma dice cose vere: “ È una parodia sulle campagne di pubbliche relazioni e la riluttanza ad affrontare i diritti umani da parte dell’industria della moda in generale e Diesel in particolare. Vuole mostrare che le violazioni dei diritti umani non sono fatti isolati e che il diritto ad un aborto sicuro è legato al contesto più ampio dei diritti sociali, dei diritti dei lavoratori e del diritto all’autonomia”.
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