Il Consiglio nazionale siriano ha additato Mosca e Pechino quali responsabili dell'escalation di violenza per il veto posto sabato all'Onu sulla risoluzione di condanna del regime proposta da Lega araba ed Europa con il sostegno Usa
Il regime siriano non ferma l’assedio di Homs. E dopo la strage di sabato (300 mort), oggi il bollettino delle vittime ha raggiunto quota 27, anche se fonti locali alzano l’asticella a 50. La città da undici mesi epicentro della rivolta contro il presidente Bashar al Assad è stata bersaglio dei colpi dell’artiglieria di Damasco, che ignora le pressioni internazionali, forte del sostegno di Russia e Cina. Si è trattato del bombardamento più pesante degli ultimi giorni, secondo quanto riferito dai militanti dell’opposizione, che ha colpito i quartieri di Khalidiya, Baba Amro, Bayada e Bab Dreib, Attacchi sono stati registrati anche nelle città di Idlib e Zabanadi a nord ovest della capitale. “Il regime agisce come se fosse immune da un intervento internazionale”, ha denunciato Catherine al-Talli, portavoce dell’Osservatorio siriano per i Diritti Umani, organizzazione di esuli con sede in Gran Bretagna.
L’artiglieria, hanno raccontato gli attivisti antigovernativi, ha preso di mira gli ospedali da campo allestiti per curare i feriti. “Interi quartieri sono completamente isolati e non riusciamo a metterci in contatto con chi si trova al loro interno”, ha denunciato un’attivista all’emittente panaraba Al Jazeera. Per la tv di Stato siriana, le immagini di tetti incendiati e colonne di fumo trasmesse dalle televisioni satellitari sono al contrario una messa in scena orchestrata dai ribelli per denigrare il governo. Il regime, inoltre, ha accusato non meglio identificati “gruppi terroristici armati” di aver sabotato due condotte petrolifere vicino alla città sotto assedio. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ufficiale Sana, un’esplosione ha sventrato l’oleodotto che pompa il greggio dal giacimento orientale di Rumailan fino alla raffineria di Homs, per proseguire poi al porto di Tartus, sulla costa mediterranea. Domenica invece, nei pressi di Talbiseh, circa 15 chilometri più a nord, era stato fatto saltare un gasdotto che alimenta la centrale elettrica di Mahrada.
Dopo l’ecatombe di venerdì, nel fine settimana oltre 88 persone, in maggioranza civili, hanno perso la vita. “I lealisti vogliono cacciate dalla città il Libero esercito siriano”, ha spiegato un uomo chiamato Hussein Nader alla Reuters, riferendosi alle milizie di disertori che da mesi controllano alcune zone di Homs e oggi hanno annunciato la formazione di un alto consiglio militare, guidato dal generale Mustafa Ahmed al Sheikh, per liberare il Paese dal Assad. Sarebbero stati i miliziani del Free Syria army a distruggere un posto di controllo dell’esercito regolare nel villaggio di al Bara, nella regione di Idlib, uccidendo tre ufficiali e catturando 19 soldati.
Dal canto suo il Consiglio nazionale siriano, il principale cartello delle opposizioni, ha additato Mosca e Pechino quali responsabili dell’escalation di violenza per il veto posto sabato all’Onu sulla risoluzione di condanna del regime proposta da Lega araba ed Europa con il sostegno degli Stati Uniti. Una decisione farsa l’ha definita il segretario di Stato americano, Hillary Clinton. Una vergogna, per il ministro della Difesa francese, Gerard Longuet, che con un’espressione colorita, ha parlato di “culture politiche da prendere a calci”.
Russia e Cina rimangono però ferme nelle loro posizioni. Sergei Lavrov, a capo della diplomazia russa, ha bollato come isteriche le reazioni sdegnate dell’Occidente. “Appoggiare la risoluzione – ha aggiunto alla vigilia della sua visita a Damasco – avrebbe significato schierarsi con un unico fronte della guerra civile”. Circostanza da evitare considerato che il regime è l’unico alleato di Mosca nella regione e principale acquirente delle armi russe.
La replica cinese è stata invece affidata alle colonne del Quotidiano del popolo. Il veto non è un sostegno ad Assad, si legge nell’editoriale a firma Zhong Sheng (Voce della Cina), nome usato per esprimere le posizioni ufficiali di Pechino in politica estera. “La situazione in Siria è complessa. Schierarsi porterebbe a un disastro”, continua l’articolista citando i precedenti, ritenuti fallimentari, dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Libia. Per l’organo del Partito comunista, il caso libico è un esempio negativo: “La Nato ha abusato della risoluzione del Consiglio di sicurezza sulla zona di interdizione al volo, dando sostegno a una parte”. A marzo quando l’Onu votò per l’imposizione di una no-fly zone Mosca e Pechino rinunciarono al loro diritto di veto, per poi criticare duramente l’evoluzione del conflitto che portò alla caduta di Muammar Gheddafi. Allora il no a un intervento in Libia sarebbe potuto essere motivato dal flusso di affari tra Tripoli e Pechino, pari a 6,6 miliardi di dollari nel 2010. Gli scambi con Damasco sono invece molto inferiore, circa 2,5 miliardi, e il veto, secondo gli analisti, è dettato dalle crescenti rivolte contro i regimi autoritari. Tutte divisioni che il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, bolla come residui della guerra fredda. “Il voto di Russia e Cina riflette il loro atteggiamento anti-occidentale”, ha spiegato il capo della diplomazia di Ankara, ex alleato della Siria che oggi accoglie gli esponenti dell’opposizione.
di Andrea Pira