Per le imprese italiane l’accesso al credito è sempre più selettivo e sempre più costoso. I dati pubblicati in questi giorni non lasciano dubbi: da quando è stata lanciata l’ampia indagine qualitativa sul mercato del credito nell’area dell’euro, cioè dal 2003, la situazione delle imprese italiane non è mai stata così difficile e soprattutto peggiore rispetto alla media degli altri paesi di Eurolandia. Neanche nei mesi bui del crac di Lehman gli indicatori avevano toccato livelli di pericolosità così elevati. Un dato per tutti: in Italia, la percentuale di coloro che a gennaio valutano le condizioni di offerta più restrittive supera di 87,5 quella di chi ha una visione opposta. In ottobre era pari a 50 e un anno fa a 25. In Europa, l’analoga percentuale è pari a 35. Coloro che valutano una situazione di restrizione sono in Italia più del doppio della media dell’area monetaria.

Il costo del credito sta aumentando: i dati della Banca d’Italia dicono che tra marzo e dicembre il costo medio dei prestiti a breve termine alle imprese, è passato da 3,7 a 5 per cento con un aumento di livello di oltre un terzo. Ed è aumentato in modo ancora più vistoso il differenziale con il tasso praticato alla clientela migliore: un modo pudico per dire che la generalità dei clienti paga tassi ben superiori a quello medio. Il credit crunch è quindi ormai un dato di fatto. Non era difficile prevedere che anche le imprese sarebbero state trascinate nel gorgo della crisi che ha investito il debito sovrano e le banche. Come più volte messo in evidenza dal Fatto Quotidiano, quando gli spread sul debito pubblico arrivano a livelli così elevati e per un periodo di tempo prolungato come nel caso italiano, le banche raccolgono sul mercato meno fondi e a costi più cari. Anche perché fra i tanti miti spazzati via dalla crisi c’è anche quello del risparmio italiano abbondante come in pochi altri paesi: il reddito disponibile delle famiglie italiane continua a diminuire e il risparmio è ormai al di sotto di molti altri Paesi europei, a cominciare dalla Germania.

E infatti nell’indagine citata l’87,5 per cento (un valore mai toccato) ritiene che la causa dell’attuale situazione sia da attribuire alla difficoltà della banca di finanziarsi sul mercato. L’analoga percentuale per l’intera area dell’euro è del 28 per cento. Dunque, le nostre banche stanno restringendo il credito alle imprese in modo molto più netto rispetto a quanto accade negli altri paesi e fanno molta più fatica a procurarsi i capitali necessari.
Eppure la Bce non è mai stata così generosa con le banche. A dicembre le operazioni straordinarie a tre anni decise da Mario Draghi hanno immesso liquidità in Europa per quasi 500 miliardi, di cui 116 sono andati alle banche italiane. Per fine febbraio è attesa un’offerta ancora più abbondante. Possibile che alle imprese non arrivi nemmeno una goccia? E invece è proprio così. Le banche italiane dipendono ormai dalla Bce per la loro attività corrente: l’attuale finanziamento della Banca centrale equivale al 10 per cento dei loro depositi totali, ma la destinazione non è nuovo credito alle imprese e alle famiglie e neppure nuovi acquisti di titoli di Stato, almeno in forma massiccia. Semplicemente, le banche stanno sostituendo passività a costo elevato come le obbligazioni collocate sul mercato con debiti verso la Bce al prezzo “politico” dell’1 per cento. In questo modo rimettono in piedi i loro conti un po’ traballanti e possono promettere ai loro azionisti (i cui nervi sono un po’ scossi, soprattutto dopo le recenti ricapitalizzazioni) una remunerazione accettabile.

Infatti, i 116 miliardi di dicembre rappresentano il 61 per cento delle obbligazioni in scadenza nei prossimi 24 mesi. Dunque, per il credito al settore produttivo, si è pregati di ripassare quando le banche avranno adeguatamente rimpinguato i loro conti. Il disegno perseguito dalla Bce di Mario Draghi è realista al limite del cinismo: poiché l’Europa non è in grado di dare una risposta organica alla crisi europea e asseconda la fobia tedesca per soluzioni più drastiche, utilizziamo l’arma indiretta dei finanziamenti a pioggia della Bce per salvare almeno le banche. Questo dovrebbe portare a poco a poco il sereno sui mercati e alla fine la crisi sarà superata. Il problema è che questo processo è lento, tanto che siamo costretti a salutare come un successo il ritorno dello spread sotto quota 400. C’è un forte rischio che il peggioramento dell’economia reale sia più veloce del miglioramento dei conti dello Stato e delle banche e che dunque la strategia dei due tempi della Bce (condivisa da tutti i governi europei) non abbia successo.

Per proteggersi da questo rischio non si sta facendo abbastanza. Anche le misure di liberalizzazione del governo Monti possono dare un contributo nel medio periodo, ma non risolvere il problema immediato di un’attività produttiva sempre più stagnante e che rischia di non avere finanziamenti adeguati. Nei limiti purtroppo stretti della finanza pubblica, occorre utilizzare tutti i canali possibili di sostegno all’attività produttiva ed evitare di sprecare tempo prezioso su temi (l’art. 18, tanto per fare un esempio) che non sono certo le cause fondamentali della mancata crescita economica italiana e della distanza che sempre più ci separa dagli altri grandi paesi europei.

Il Fatto Quotidiano, 7 Febbraio 2012

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