Il primo a cui ho pensato è il preside Zen. Chissà cosa suggerirebbe – lui che ha caldeggiato un momento di utile riflessione durante le vacanze di Natale per i docenti, che stavano indebitamente usufruendo di un periodo di vacanze “illegittimo” – a noi insegnanti romani (e di chissà quanti altri comuni italiani), bloccati a casa dalle ordinanze del sindaco Alemanno. Poi ho pensato ai leghisti, a Roma ladrona, allo scialo di commenti che questa sconclusionata ma per niente semplice vicenda sta provocando. Poi mi sono goduta la neve – che è arrivata la notte tra venerdì e sabato: spettacolo inconsueto che nella zona in cui abito non ha creato disagio, ma solo quella naturale recrudescenza di infantilità che in noi terroni alberga silente e cerca qualsiasi occasione per esplodere. Poi ho gioito per i miei figli e i loro amici che gioivano, giorno dopo giorno, al susseguirsi delle notizie relative alla sospensione della didattica, alla chiusura delle scuole – prima uno, poi due, poi tre –, alla spasmodica ricerca in rete di notizie che confermassero le “voci” che si diffondevano durante le prime ore del pomeriggio: giovedì, sabato, lunedì…
Poi ho cominciato a fare i conti con il danno didattico di questa situazione: la terza liceo da portare all’Esame di Stato, la stagione dei viaggi di istruzione che si avvicina e che causerà ulteriori rallentamenti ai programmi. Infine mi sono ricordata di una delle immagini indelebili, di quelle che non riesci a lavare dagli occhi, che mi sono trovata davanti un paio di settimane fa, andando a scuola, sulla grande strada che collega casa mia con la zona in cui insegno, la Cristoforo Colombo: la coda interminabile di auto fluidificata dopo il passaggio del blocco. Disteso in terra, coperto dal lenzuolo, presumibilmente un ragazzo, considerato il motorino più in là. Si chiamava Matteo, ho poi saputo dai drappi che sono stati collocati in quel punto dagli amici nei giorni seguenti, e aveva 19 anni. Di lui non so nulla, tranne quel suo stare lì – immobile – in una gelida mattina di fine gennaio. E che non ha visto la neve a Roma.
Roma è la città dei motorini. E, considerate le condizioni di ghiaccio in molte zone, la chiusura delle scuole, oltre ad aver diminuito il traffico, ha sventato incidenti che sicuramente sarebbero avvenuti. Non voglio intervenire sulle polemiche di questi giorni: scuole chiuse, sospensione della didattica, interpretazione delle ordinanze di Alemanno, eventuali sprechi determinati dalla contemporanea presenza del personale e assenza degli studenti. Lo hanno fatto già in molti (troppi): insegnanti, dirigenti, genitori, politici, amministratori e opinionisti di professione. Ne so troppo poco. Ma è sicuro che l’oggettiva differenza di condizioni tra una zona e l’altra della Capitale non consente la coerenza di comportamenti univoci. D’altra parte le strutture scolastiche – che ieri sera su La7 un Casini indignato denunciava come fatiscenti (dove era lui, durante gli anni di Governo? Quali provvedimenti ha proposto in proposito?) – devono essere accuratamente perlustrate per evitare ulteriori incidenti, oltre a quelli da trauma moltiplicatisi in questi giorni in città.
Quello che è certo è che una nevicata di inizio febbraio ha messo in evidenza la fragilità potenziale della nostra città e sottratto la regolarità delle esistenze nostre e dei nostri alunni alla routine quotidiana. Basta poco per cambiare panorama visivo e interiore. Dalla gioia irrefrenabile degli studenti agli scrupoli professionali del docente, alla valutazione di quali sforzi la pausa forzata imporrà per recuperare, alla gestione di situazioni di emergenza che statisticamente hanno cadenza almeno ventennale, tutto sembra spunto per avventure della mente: riflessione, appunto. Sarà sufficiente o avrà da consigliare qualcosa d’altro anche questa volta lo zelante dirigente Giovanni Zen? Saremo chiamati a giustificarci ancora una volta di un’inattività, per giunta coatta?