Questo non è davvero il momento per parlare di ambientalismo o perderci in utopiche illusioni pacifiste.
Siamo nel pieno di una crisi economica – ed occupazionale – senza precedenti e di questo è necessario occuparsi, seriamente!
Non intendo ripetere qui le analisi già sentite mille volte in questi mesi sulla necessità di risanare il nostro debito e riequilibrare lo spread fra i nostri BTP e gli equivalenti bund tedeschi. Vorrei provare a dare invece un contributo di riflessione su come cercare di mantenere per quanto possibile il denaro, e di conseguenza anche l’occupazione, in Italia.
Per fare questo credo sia utile riflettere un attimo sul saldo della bilancia commerciale italiana, sul rapporto cioè fra le nostre esportazioni e le importazioni dall’estero.
Questo aspetto assume un ruolo davvero decisivo in un mercato globale che si muove sempre più su una dimensione internazionale.
In teoria infatti, come amano ricordarci spesso, noi dovremmo trarre benefici dallo scambio con l’estero perché l’esportazione porta ricchezza nel nostro paese e se pensiamo che essa è cresciuta nel 2010 del 15,7%, nonostante la crisi, sembrerebbe esserci di che ben sperare.
Purtroppo però, nel bilancio complessivo, l’import supera di gran lunga l’export e soprattutto cresce a un ritmo quasi doppio (+22,6%) rispetto alle esportazioni, per cui ci siamo ritrovati nel 2010 di fronte a una perdita netta per le nostre tasche di 27,3 miliardi (pari a una intera manovra finanziaria!) e ad un trasferimento continuo di ricchezza all’estero.
Nel 2011, secondo le proiezioni Istat sui dati di novembre, dovrebbe essere andata un po’ meglio (si fa per dire) con una perdita netta di “soli” 25,8 miliardi di euro a causa di “un aumento congiunturale” delle esportazioni del 2,3% per il mese di novembre.
Un dato incoraggiante, ma che non sposta di una virgola la riflessione: se non riusciamo a riequilibrare questo rapporto non potrà esserci alcuna sostenibilità economica strutturale e nessuna manovra sarà sufficiente per uscire definitivamente dalla crisi!
(A chi ci ricorda, di continuo, che la Cina potrebbe essere per noi un mercato potenziale enorme voglio semplicemente far notare come essa rappresenti appena il 2,3% delle nostre esportazioni, in lievissima crescita, mentre costituisce già ora il 7% delle importazioni e in forte aumento!)
Se poi guardiamo nel dettaglio ci accorgiamo che un quarto delle importazioni è rappresentato da prodotti finiti o semilavorati e da materie prime, ma in realtà è l’energia a rappresentare la principale fonte di questo squilibrio per il nostro paese, costituendo il 75% della perdita nel 2010. Senza le importazioni di energia saremmo addirittura in attivo. E il dato delle importazioni dei prodotti energetici è cresciuto ulteriormente nel 2011 (+17,2%) aggravando ancora il nostro saldo energetico.
Quindi occorre una riflessione seria sulla nostra autonomia energetica, come condizione per poter avere anche una autonomia politico-economica!
Basti sapere che in media nell’Europa dei 27 si importa il 53,9% del consumo lordo di energia, mentre per l’Italia questo dato arriva addirittura all’82,9%.
Per queste ragioni io credo che occorrerebbe affrontare molto seriamente l’invasione commerciale di prodotti esteri ricominciando a consumare italiano, promuovendo le filiere corte, le produzioni a km zero, i Gruppi di Acquisto Solidale e ancor più i Distretti di Economia Solidale che potrebbero avere una valenza molto più grande di quanto di solito venga loro attribuito.
Ma soprattutto risulta indispensabile promuovere l’autonomia energetica del nostro paese, attraverso un grande piano di piccole opere, ad iniziare dal risparmio energetico e dalla riqualificazione energetica dei nostri edifici (coibentazione, doppi vetri, etc…), per poi continuare con la promozione delle fonti rinnovabili, possibilmente diffuse e su piccola scala. Basterebbe che ogni casa soddisfasse il proprio fabbisogno familiare, installando un pannello solare termico (o una sonda geotermica, per trasferire il calore dal terreno) ridurre drasticamente e con un piccolo investimento la nostra dipendenza dal metano estero, che rappresenta quasi il 40% della nostra importazione complessiva di energia – principalmente da Russia, Algeria e Libia – come ci ha ricordato molto chiaramente la neve di questi giorni.
Queste azioni porterebbero enormi vantaggi – strutturali – da tutti i punti di vista: per l’economia, l’occupazione, la salute e l’ambiente!
E si potrebbe realizzare in tempi tutto sommato brevi. Nel frattempo, per reperire a brevissimo termine le risorse necessarie al fine di non massacrare il nostro welfare, una proposta avanzata da tutta la società civile potrebbe essere quella di ridurre drasticamente le spese militari. Ovviamente, dicendo questo, non ho la sfrontatezza di proporre di “mettere le mani nelle tasche degli italiani” per recuperare ed utilizzare in altro modo una parte delle spese militari attuali (pari a 700 euro a testa ogni anno, in media), ma mi limito a parlare solo dei nuovi investimenti in programma, a partire dai cacciabombardieri F35 e continuando con molte altre nuove dotazioni come sommergibili, navi da guerra ed elicotteri, che ci potrebbero portare ad un risparmio complessivo di 43,3 miliardi di euro.
Forse allora, a ben guardare, l’ecologia e il pacifismo non sono questioni accessorie di cui dovremmo occuparci solo dopo aver sistemato la questione economica, ma potrebbero rappresentare la prospettiva dalla quale affrontare con successo la crisi stessa ed uscirne migliori di prima, con prospettive future di reale prosperità e democrazia.
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