I puristi potrebbero rabbrividire, il parallelo senza dubbio è ardito… ma «pertinente», come nota Claude Calame, direttore di studi all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi: «Quando è condotta in maniera differenziale (niente si ripete mai alla stessa maniera), la comparazione storica può essere rivelatrice». Molte, infatti, sono le differenze specifiche, ma più forte l’analogia concettuale: ricorrere ad un governo straordinario per fronteggiare una situazione straordinaria.
Anche sul piano formale, del resto, più di un’affinità sussiste fra le due cariche. Entrambe frutto di una nomina e non di un voto elettorale; entrambe con una scadenza temporale e un raggio d’azione circoscritto; entrambe assegnate a personalità dotate di grande autorevolezza, che in qualche modo supplisce alla mancata investitura popolare. “La situazione d’emergenza ha fatto sì che io fossi chiamato a reggere lo Stato”: è la frase tipo che Livio faceva dire ai dittatori romani nel discorso d’insediamento. Veri e propri salvatori della patria, insomma. Mario Monti come uno di loro. Come Marco Valerio Corvo, ad esempio: che, nominato per ricomporre la minaccia di una secessione popolare, varò una serie di importanti riforme di cui si discuteva da tempo senza mai venirne a capo. Suona familiare, no?
Certo, le analogie non cancellano le differenze. A cominciare dalla presenza dell’aggettivo “tecnico”: a Roma il concetto di competenza in politica era praticamente inesistente. Così, se in quel caso avevamo il ricorso ad una magistratura alternativa e un’effettiva estensione di potere, nel nostro l’assetto costituzionale non cambia d’una virgola. E a quei tempi l’emergenza aveva spesso e volentieri i truci tratti della guerra; ora, invece, assume le più subdole fisionomie del tracollo finanziario. Ma un principio comune ispira le due situazioni: svincolare il governo dalle ovvie complicazioni che la politica porta in dote per renderlo massimamente operativo. L’esecutivo che entra in carica non dovrà fare quotidianamente i conti con le problematiche della concertazione fra le parti, con iter legislativi laboriosi, non da ultimo con la stringente considerazione dell’opinione dell’elettorato. Ed in virtù di ciò potrà prendere provvedimenti efficaci, in tempi brevi.
Sia il governo tecnico che la dittatura romana nascono dall’idea – che è quasi un’ammissione – dell’incapacità della politica ordinaria di essere risolutiva in circostanze straordinarie; un’incapacità che deriva dalle stesse dinamiche di funzionamento della politica democraticamente concepita, e si traduce in un passo indietro. Come un tempo la rimozione dei veti incrociati e del principio di collegialità donava incisività all’azione del dictator; così oggi la crisi e mille altre considerazioni impongono ai partiti di sostenere in maniera quasi incondizionata il governo, conferendogli un potere d’azione che nessun altro esecutivo potrebbe avere in un simile momento.
Nel nostro discorso non c’è giudizio al merito: il parallelo non nobilita il governo Monti, né gli conferisce un’aura sovversiva. E neppure c’è pretesa di dogmaticità, ma solo il guizzo d’una suggestione; ché a poco servono gli studi, se incapaci di sintesi e produrre nuove idee.
La storia ci conforta: godiamoci pure questa tregua dalla consueta bagarre parlamentare. Sempre che il paragone più calzante, alla fine, non si riveli quello con Manio Valerio Massimo, “scaricato” dal senato al primo tramontare della crisi: la politica, estromessa dallo stato d’emergenza, voleva a tutti i costi riprendere le redini del gioco. Anche questo suona familiare: la storia si ripete, appunto.
Lorenzo Vendemiale