Ad annaspare soprattutto il settore privato, dove si investe poco o non si investe per niente in ricerca e sviluppo. “Nel corso dell’ultimo decennio l’economia italiana si è orientata verso attività di non ricerca tanto che la sua intensità è diminuita gradualmente fino a raggiungere l’1,27 per cento del Pil nel 2009 tra pubblico e privato”, si legge nel bollettino Horizon 2020. Sarà che l’economia italiana è basata in buona parte sulle piccole e medie imprese, ma lo sviluppo economico sul modello “miracolo del Nord-Est” non sembra più dare i suoi frutti.
Se ne sono accorti i Paesi del centro e nord Europa che proprio su ricerca e sviluppo investono annualmente fior di milioni. A guidare la classifica europea, secondo i dati pubblicati oggi, la Svezia, dove insieme a Danimarca, Germania e Finlandia, si investe più del 3 per cento del Pil in R&S. Questi Paesi sono tutti caratterizzati da solidi sistemi nazionali di ricerca e innovazione in cui l’attività economica e la collaborazione fra pubblico e privato rivestono un ruolo essenziale. Tant’è che risultano al positivo tutti i 24 indicatori, raggruppati in 3 categorie principali e 8 ambiti individuati dallo studio Ue: “elementi abilitanti” che rendono possibile l’innovazione (risorse umane, sistemi di ricerca aperti, di eccellenza e attrattivi, finanziamenti e aiuti); “attività delle imprese” (investimenti, collaborazioni e attività imprenditoriali, patrimonio intellettuale); “risultati”, ovvero i benefici per l’intera economia (innovatori ed effetti economici, compresa l’occupazione).
Non è un segreto che investire in ricerca e sviluppo vuol dire stimolare la crescita economica, il che a sua volta crea posti di lavoro, aumento del potere d’acquisto e così via all’interno di un circolo virtuoso che, in tempi di crisi, fa bene pure ai mercati. Ecco che Svezia, Danimarca, Germania e Finlandia, guarda caso, sono tra i Paesi più sani (economicamente) d’Europa. Seguono i “Paesi che tengono il passo”, come si legge nel rapporto Ue, ovvero Belgio, Regno Unito, Paesi Bassi, Austria, Lussemburgo, Irlanda, Francia, Slovenia, Cipro ed Estonia. Poi, appunto l’Italia insieme a Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Ungheria, Grecia, Malta, Slovacchia e Polonia. Ultimi tra gli ultimi, Romania, Lituania, Bulgaria e Lettonia. Meglio non fare paragoni.
Della necessità di invertire la rotta se n’è accorto anche Antonio Tajani, Commissario europeo all’Industria: “Quando ci sono problemi di tipo economico-finanziario la politica deve fare delle scelte”. La politica in questo caso è lui, visto che è Commissario europeo da ormai da 4 anni. Anche perché la cattiva performance di Paesi come l’Italia non è più un problema solo italiano, almeno all’interno del mercato interno e della moneta unica. Impietoso infatti il confronto su scala internazionale, dove l’Ue non riesce a ridurre il ritardo rispetto ai leader globali dell’innovazione: Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, rispetto ai quali il divario è ancora particolarmente marcato soprattutto per quanto riguarda il settore privato.
Tuttavia l’Ue resta ancora in netto vantaggio rispetto alle economie emergenti di Cina, Brasile, India, Russia e Sud Africa. Ma si tratta di tutti Paesi che stanno correndo, mentre gli europei stanno dimostrando un certo fiato corto.